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lunedì, Aprile 29, 2024

    Povera Farfalla!

    Non l’avevo fatto mai. Ma stavolta l’ho fatto. A dodici anni di distanza dal colpo ricevuto in pieno petto, il ricordo era ancora troppo vivo. Non potevo indurmi, oggi, a subire lo stesso trattamento. Ho preso il biglietto del Regio e l’ho fatto sparire. Non  ci sono andata.

    Di cosa parli?! chiederete. Risposta: della ripresentazione da parte del nostro teatro di una delle regie più perfide di cui io abbia contezza (e sì che ne ho viste tante), quella del regista o supposto tale Damiano Michieletto per “Madama Butterfly”.

    Ora mettiamoci d’accordo su questo: Madama Butterfly non è un’opera lirica né un melodramma. E’ una “tragedia giapponese”, come scritto sul libretto, capolavoro di quel fine orientalista che fu Luigi Illica, affiancato nella stesura del testo dal fine poeta Giuseppe Giacosa. Le prescrizioni sono così intrinseche e vincolanti, da rendere impossibile lo sradicameto in un “altrove” qualunque. E’ vero, ci sono state delle Butterfly ambientate nella Nagasaki post bomba atomica, con la povera Farfalla vestita di stracci e piagata dalle radiazioni, altre in cui la Farfalla passa l’intero Atto II a cercare di padroneggiare degli elettrodomestici ribelli, o altre in cui viene retrocessa dal ruolo di geisha a quello di prostituta. Brutte cose, sì, ma tutte di ambito giapponese, dove, pur nel degrado, restava memoria di quella eccellenza che fu l’educazione, la rispettabilità e l’onore in tale civiltà.

    Ma, come disse Flaiano, “anche i cretini si specializzano”. Ecco dunque sorgere la necessità di attualizzare la vicenda e di trasferirla in una metropoli qualunque dell’Estremo Oriente – diciamo Bangkok – dove una ragazzina di bassa educazione ed estrazione viene “venduta” a un pedofilo nell’ambito delle pratiche del turismo sessuale. Rendere più antipatico il tenore già di per sé più antipatico della storia della Lirica, F.B. Pinkerton, è cosa ardua, ma il regista ci è riuscito benissimo, spogliandolo della divisa di ufficiale di Marina (che bene o male faceva di lui un uomo dotato di un codice) e mettendogli addosso i panni d’un turista avvinazzato che per tutto il duetto d’amore dell’Atto I è ubriaco fradicio. E vabbè! Pinkerton era anche un alcolizzato…

    Ma lo spaesamento procurato dal contrasto fra le parole e ciò che capita sulla scena resta scioccante; non c’è più mare, non c’è più collina, non c’è più pioggia di fiori, soprattutto non c’è più la nave  bianca, ma al suo posto una grintosa rombante bianca Giugiaro che, non dotata di “fil di fumo”, entra però strombazzando nel quartiere a luci rosse; quartiere che durante il Coro a bocca chiusa sarà disturbato dai continui passeggiamenti delle passeggiatrici. La schizofrenia fra ciò che è scritto e ciò che si vede è totale. Sono sicura che il prossimo passo registico sarà quello di riscrivere da cima a fondo i libretti per adattarli alla loro regia.

    Ma è il caso di arrabbiarsi?! direte voi. Avete ragione. Di robaccia del genere ne abbiamo già vista così tanta che non metterebbe nemmeno conto parlarne. Quanto descritto potrebbe tranquillamente essere archiviato sotto il titolo “normale arroganza di registi ignoranti autonominatisi signori e padroni delle opere d’arte”.

    Se all’inizio ho parlato di colpo in pieno petto, intendevo ciò che succede nel Finale. Tutto il resto lo si può accettare come torbida conseguenza dei nostri gusti attuali, che vogliono il brutto dovunque, ma la morte, no, la morte è l’ultimo traguardo di nipponicità, e se fin qui tutti gli altri riferimenti sono stati demoliti e gettati nella spazzatura, resta pur sempre questo, il suicidio rituale, minuziosamente descritto nel libretto; non il “harakiri” come viene erroneamente detto, ma lo “jigai” femminile con tutta la sua macabra ritualità. “Come posso demolire quest’anticaglia?” si è chiesto il regista. Detto e fatto. In un momento musicalmente fra i più alti di tutta la storia del teatro lirico, alla povera Farfalla viene persino negato il conforto di darci quella grande lezione etica che deriva dal suo “con onor muore / chi non può serbar vita con onore”. La vediamo frugare fra la plastica e i rifiuti, trovare la sua borsetta, trarne fuori qualcosa che poi avvicina alla tempia. Con sgomento riconosciamo essere una pistola, e così, col “bang” di un piccolo revolver da borsetta, risonante anche in orchestra, si spara. Avete capito bene: si spara!

    Adesso comprenderete perché non potevo risottopormi a un simile raccapricco. E così, per non vedere, ho rinunciato ad ascoltare.

    Di sicuro ci sarà chi, non amando Butterfly, gode di tutto ciò che la fa a pezzi; chi, non potendo abolirla, esulta nel vederla sputtanata. C’è gente che l’ha in uggia, che la considera il solito ricatto sentimentale di Puccini, e che magari trova splendida questa trovata. Per me non potrà mai essere così. Non ho sufficiente elasticità mentale per amare contemporaneamente il sublime e il disgustoso. Ecco perché questa pistolettata – negazione assoluta della sacralità della “tragedia giapponese” – trapassandomi dodici anni or sono, mi ha impedito di rimettermi oggi alla prova. Altolà, mi ha detto: hai già dato.

    Luisa Forlano

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    Luisa Forlano
    Luisa Forlano
    Luisa Camilla Forlano è nata a Boscomarengo, in provincia di Alessandria, e vive a Torino. Oltre all’amore per la Musica coltiva assiduamente quello per la Storia, in particolare per l’antichità classica, ma anche per i secoli a noi più vicini, quelli della rinascita della ragione. Ed è stato nel desiderio di far rivivere alcuni momenti storici cruciali che si è affacciata al mondo della narrativa: nel 2007 col suo primo romanzo “Un punto fra due eternità”, un inquietante amore ai tempi del Re Sole; e poi con “Come spie degli dèi” (2010), che conserva un aggancio ideale col precedente in quanto mette in scena le vicende dei lontani discendenti del protagonista del primo romanzo. In entrambe le narrazioni la scrupolosa ricostruzione storica costituisce il fil rouge da cui si dipanano appassionanti vicende umane, fra loro differenti, ma fortemente radicate nella realtà storica del momento.

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