Tra i molti capovolgimenti promossi dalla Rivoluzione Francese, uno fra i più importanti fu l’emancipazione degli Ebrei, che, da seguaci di una religione malvista e perseguitata, si trovarono di colpo a essere liberi cittadini come tutti gli altri. Questo fatto ebbe conseguenze enormi in ogni campo culturale, e in particolare in quello musicale, dove schiere di giovani promettenti fino ad allora esclusi dai conservatori si aprirono al mondo esterno e vi portarono la loro grande, e in qualche caso meravigliosa, capacità inventiva.
Rimanendo in Francia, basti pensare al terzetto costituito da Halévy-Alkan-Offenbach, che, insieme a un altro musicista di origine israelita, Meyerbeer, restarono sulla breccia per gran parte del secolo XIX. Provenivano tutti dalla musica sinagogale, però si affrettarono a metterla da parte per allinearsi ai gusti e agli stili musicali dell’epoca. E venendo al parigino Fromental Halévy (1799-1862), è bello notare come abbia saputo, lui, figlio di un cantore di sinagoga, utilizzare al meglio le libertà dategli da Robespierre e confermategli da Napoleone. Entrato a dieci anni nel Conservatorio di Parigi, vi erediterà la prestigiosa cattedra di armonia e contrappunto, e da allievo di Cherubini e vincitore a vent’anni del Prix de Rome, diventerà insegnante di Gounod, Saint-Saëns e Bizet (quest’ultimo avrebbe sposato sua figlia Geneviève). Teorico del contrappunto ma maestro incapace di severità, animo gentile ma col cuore fortemente romantico, oggi la sua folta produzione operistica viene solo ricordata per “La Juive”, mentre invece molti suoi lavori, sia sacri che profani, insieme ad almeno un quartetto di opere, meriterebbero di restare normalmente in repertorio. L’oblio in cui la sua fama cadde dopo la morte è caratteristico di coloro che in vita ebbero troppa fama.
La storia del libretto della “Juive” è interessante. Gli fu proposto da Eugène Scribe insieme ad altri soggetti, che lo lasciarono freddo, mentre di fronte a questo prese fuoco. Tuttavia la trama rischiava di terminare con un lieto fine, e solo con la sua caparbietà Halévy riuscì a imporre l’eroico “no” di Rachel che rifiuta di rinnegare la propria religione e accetta il martirio. Il clima di cupe violenze presente nei roghi del Concilio di Costanza, dove eretici d’ogni tipo, fossero cristiani hussiti o ebrei, venivano atrocemente “giustiziati”, era molto richiesto. Proprio allora, con Scribe, il genere “grand-opéra” stabiliva le sue regole, cinque atti di grandi contrasti, grandi effetti, partecipazione delle masse, sovrabbondanza di balletti, ostentazione di catastrofi, sciagure, pire, patiboli, calderoni d’acqua bollente… Si andava a teatro per stupirsi, per sbigottire, e non si può dire che opere di quel tipo non ci riuscissero. La sera della prima della “Juive”, il 23 febbraio 1835, tutto il teatro esplose in applausi fragorosi, con Mendelssohn e Liszt in testa, e interminabile fu la folla degli ammiratori successivi, Wagner, Berlioz, Mahler… Ormai Halévy era entrato nelle glorie musicali della Francia e la sua “ebrea” avrebbe presto raggiunto un numero impressionante di repliche. Anno prodigioso, quel 1835, che era iniziato con “I Puritani” di Bellini (a Parigi), per chiudersi con “Lucia di Lammermoor” (a Napoli). Dalla “Juive” restò colpito lo stesso Donizetti quando presenziò a una delle riprese. Spaventato, scrisse a un amico: “pare vero sai, fa male… troppa verità, bruciano viva la Juive, l’ultima scena è troppo orrenda, ed è più orrenda per tanta illusione.” Colpivano, certo, le ricche scenografie e i mirabolanti effetti scenici, ma soprattutto colpiva la musica, capace di penetrare nella complessa psicologia dei protagonisti e surclassare le esigenze spettacolari a favore delle dolenti passioni umane. Di Halévy è notevole in tutti sensi l’orchestra, che, da terribile tromba del giudizio nei pezzi d’insieme, si rarefà durante le scene intime e sovente tocca soluzioni di elegante strumentismo, mai sbracata, mai pompier, anzi raffinata, sempre.
Tutti aspetti che abbiamo ritrovato e potuto ammirare durante il ripescaggio della “Juive” con cui – dopo circa 150 anni di assenza – il Teatro Regio ha aperto la nuova Stagione Lirica, un premio per i melomani esigenti ma anche per i semplici curiosi intenzionati ad apprezzare una musica ben scritta.
In questa partitura di quasi quattro ore dove la noia non alberga mai, molti sono i momenti che sfiorano il sublime. In mezzo a tanto ben di Dio forse è banale, o persino disdicevole, dare una rilevanza particolare a quell’aria “Rachel, quand du Seigneur” che ha reso celebre l’opera in tutto il mondo; ma è impossibile non farlo. Quando viene il 4° atto, quando si srotola questa lunga lunga melodia, quando due corni inglesi la intonano ora sovrapponendosi ora affiancandosi, e quando oltretutto si dispone di un tenore come Gregory Kunde e di un direttore d’orchestra come Daniel Oren… allora a quel punto tutto si ferma come per magia. E ho sentito sotto le palpebre qualcosa di umido. Vi prego non ridete. Il teatro d’opera è anche questo.
Bentornata, Rachel!
Quando si dispone di un tenore come Gregory Kunde e di un direttore d’orchestra come Daniel Oren… allora a quel punto tutto si ferma come per magia. E ho sentito sotto le palpebre qualcosa di umido. Il teatro d’opera è anche questo.