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mercoledì, Maggio 15, 2024

    Giacomo Grosso e la sua scuola

    Alla Pinacoteca Albertina

    Giacomo Grosso (Cambiano 1860 – Torino 1938) fu indubbiamente un esponente di rilievo della pittura piemontese, forse tra i più conosciuti, amati e criticati nel periodo a cavallo tra Otto e Novecento. Le difficili condizioni economiche familiari lo condussero a entrare in seminario a Giaveno, quale unica possibilità per poter continuare a studiare, ma il pittore Andrea Gastaldi (1826-1889), suo maestro, gli permise di ottenere una borsa di studio dal comune di Cambiano, grazie alla quale si iscrisse e diplomò all’Accademia Albertina di Torino. Qui fu docente di disegno di figura a partire dal 1889, per ben quarantasei anni!
    Al disegno affiancò lo studio del colore (anche se molte sue opere, almeno all’inizio, furono improntate su violente contrapposizioni tra bianco e nero, grigio) osservando e analizzando opere di Michetti e di De Nittis (del quale studiò anche l’uso del pastello) all’Esposizione nazionale di Torino del 1880. Ottenne molti riconoscimenti ed espose in tutta Europa, frequentando Parigi, Londra, Bruxelles, le sue opere furono anche molto apprezzate a Buenos Aires realizzando ritratti della ricca borghesia argentina.
    Si affermò come ritrattista di borghesi e regnanti, ma anche come autore di quadri molto discussi più per il tema, forse, che per la qualità della pittura: basti pensare al dipinto Supremo convegno (raffigurante l’interno di una chiesa dove intorno a una bara vi era un gruppo di donne nude; fu esposto alla prima Biennale di Venezia del 1895 e andò poi distrutto)che fece tanto scalpore da provocare la condanna del Patriarca Giuseppe Sarto, futuro papa Pio X. All’epoca Grosso era un artista alla moda e quindi molto ricercato e amato dalla buona società torinese. Le sue opere, i suoi ritratti, proprio perché compiacente specchio del modesto gusto borghese della sua clientela, furono guardate con perplessità dalla critica e giudicate come “virtuosismo vuoto di sentimenti” oppure “superficiale vanità”. L’ostinata ricerca del bello di Grosso, la sua accademica pittura di altissima qualità fu sempre apprezzata dal pubblico, ma non dalla critica che sempre sottolineò la sua chiusura provinciale e in lui non vedeva altro che un simbolo di arte tradizionale (incurante ad esempio, delle nuove scuole dettate da F. Casorati); fu molto probabilmente un pittore pompier (ossia arte accademica, eseguita perfettamente, ma priva di sentimento, falsa), ma certamente un elegante testimone del suo tempo.
    Il periodo artistico compreso tra fine Ottocento e primo Novecento è assai interessante, ricco di fermenti, ma Torino – che sta vivendo profondi cambiamenti, da città capitale a città industriale, operaia e borghese – è ben lontana da essere un centro propositivo; vi regna una cultura piuttosto tradizionalista.

    Anche per quanto riguarda le arti figurative l’Accademia si pone come custode di valori fondati, come filtro per qualsiasi proposta proveniente da una società in ristrutturazione. Tuttavia dall’Accademia escono nomi eccellenti e all’avanguardia come Evangelina Alciati, Carena, Bosia, Omegna oltre Boggio, Buratti e Zolla che rappresentano buona parte della migliore arte piemontese di inizio ‘900.
    Dopo la grande esposizione (ancora visitabile) incentrata sulla figura di Giacomo Grosso, la Pinacoteca Albertina dedica un ciclo di mostre “Dalla scuola di Grosso” a tre artisti formatisi alla sua Scuola di Pittura e che si sono affermati dopo gli studi accademici: Bartolomeo Boggio, Domenico Buratti e Venanzio Zolla.
    Il Boggio (1875-1950), canavesano d’origine, visse l’intenso periodo delle avanguardie e del rinnovamento culturale, ma la sua espressione artistica rimase sempre legata alla tradizione. Le sue opere, di alta qualità, sia nella pittura di carattere sacro (ha decorato la cattedrale di Philadelphia), sia nella pittura di paesaggio, sia nel ritratto, furono mai di rottura col passato; furono d’ispirazione romantica, di un romanticismo nordico; mentre le nature morte, fortemente descrittive da richiamare la pittura barocca.
    Domenico Buratti (Nole Canavese 1881- Torino 1960) fu pittore di originale talento, ma anche poeta intenso (alcune sue poesie apparvero sui Brandè) e, con il fratello Tino, editore (pubblicarono la seconda edizione de “Ossi di seppia” di Montale). Anche per Buratti la grande tradizione stilistica italiana fu l’unico indiscutibile riferimento; convinto assertore che ogni forma di rinnovamento artistico, la ricerca dovessero passare attraverso la bellezza e la “purezza antica”. Buratti espresse, in alcune opere, il suo impegno sociale seguendo gli avvenimenti dell’epoca e le orme di Pellizza da Volpedo, senza però mai tralasciare le classiche componenti fantastiche e poetiche.
    Venanzio Zolla (1880-1961) nato a Colchester, visse e lavorò alternativamente tra Londra e Torino; questo influì sulla sua espressione artistica (ritratti, paesaggi, nature morte) attenta alla pittura inglese del secondo Ottocento e al postimpressionismo. Zolla, pittore dalla forte personalità, rimase indifferente alle mode del suo tempo ma, forse a differenza di altri artisti, la sua arte assunse valore di coinvolgente testimonianza tra realtà e interiorità, lontana dalla leziosità voluta da una certa società dell’epoca.

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