Se togliamo i colori del cosiddetto foliage, termine di recente introduzione nel vocabolario globale, che altro non è se non la colorazione assunta dal fogliame degli alberi e arbusti decidui in questo periodo, novembre è un mese non particolarmente allegro. Sarà per questo che l’orologio del tempo mette indietro le lancette…
Mi succede sempre più spesso, complice il periodo molto incerto e carico di problemi, gli anni che avanzano, gli acciacchi che incalzano e allora il pensiero va a quei tempi in cui le stagioni erano segnate dai colori delle foglie sugli alberi e i frutti che da essi si ricavavano.
La regina di questo periodo era la castagna, “la cocca”, il suo albero “l’arbu” iniziava a metà ottobre, in base alle condizioni meteo, a far cadere i suoi frutti, si diceva che quando i ricci, “li ariss” iniziavano a cadere l’autunno stava velocemente incalzando. Albero molto diffuso nelle nostre valli prima che il maledetto cinipide arrivasse a falcidiarlo e molto longevo, la castanea sativa può superare i 1000 anni: quello dei Centocavalli sull’Etna si dice abbia 4000 anni.
Questo frutto era un grande sostentamento, l’italico pane dei poveri di Giosuè Carducci, Pane del Focolare di Garcia Lorca, ricco di fibre importanti per l’intestino, acido follico e sali minerali quali potassio fosforo calcio e ferro, per contro ha un elevato apporto calorico, si può usare al posto dei cereali, in quanto è costituito soprattutto da carboidrati e totalmente privo di glutine.
Ottimo l’abbinamento con il cioccolato fondente, ma il dolce più tipico è sicuramente il castagnaccio, con farina di castagne, uvetta pinoli e rosmarino, la sua zona origine è la Lunigiana dove la farina di castagne è DOP ma è conosciuto ovunque.
Qui il ricordo si sposta su Nonna Vincenza, la regina dell’orto, delle conserve, di tutto ciò che di commestibile si trovava in natura. Se andava a fare due passi e io la seguivo volentieri indossava il doppio grembiule,”foudal”, non a caso. Portava a casa di tutto e uno solo non sarebbe bastato. L’autunno era la sua stagione preferita, cominciava col portare a casa le mele. Ottima raccoglitrice e conoscitrice di funghi (degna madre di suo figlio, mio padre). Si andava nel bosco, un luogo che ho sempre visto ricco di magia, popolato da creature invisibili, frutto della fantasia e del desiderio di vedere al di là dello sguardo. Ogni tanto la obbligavo ad accompagnarmi in un anfratto o in una casa diroccata: era curiosa quanto me, per fortuna.
Le castagne erano un suo cavallo di battaglia. Quando iniziavano a cadere i ricci ogni giorno partiva per la raccolta; un cesto di vimini per quelli ancora interi, “la cavagna”, uno più piccolo per quelle che nella caduta fuoruscivano indistintamente. Poi a casa c’era la cernita; quelle perfette si vendevano, quelle medie per il consumo di casa, le peggiori alle galline: un sistema di economia domestica dove nulla era sprecato. I ricci servivano per accendere il camino o la stufa.
I ricci, interi, venivano ammucchiati in un locale – e si aprivano poco per volta per mantenere più freschi i frutti, con un piccolo martello di legno, il “pich” -, si raccoglievano con delle pinze di legno e ferro, “le forse”. Quando gli alberi si erano svuotati di frutti e foglie queste venivano raccolte e portate nella stalla, un ottimo giaciglio per gli animali. Le castagne venivano fatte cuocere ed erano il fine pasto di tutta la stagione. A volte come caldarroste, con una pentola che nonno Medardo, fine cervello tuttofare, aveva bucherellato. Quando erano già un po’ secche si faceva la minestra. In questo caso mi succedeva di saltare il pasto perché proprio non mi piaceva, ma così funzionava: o mangi questa minestra, o salti dalla finestra!
Un anno a novembre vedevo nonna sferruzzare di nascosto e quando arrivavo tutto scompariva. Alla mia domanda: cosa fai? La risposta era: “Degli scapin”, calze corte di lana pesante, per nonno… A Natale in un pacco di carta semplice trovai uno scialle blu e rosso. L’ho usato in tutti i modi possibili, una coperta di Linus, e l’ho conservato. Purtroppo nonna è mancata presto, avevo 9 anni, è stata la prima perdita importante e ne ho sofferto moltissimo; aveva un carattere spigoloso e impulsivo nel quale mi ritrovo parecchio, ma era un porto sicuro, il rifugio ai rimproveri materni, le coccole dopo una caduta. Conosceva tutte le erbe e mi faceva impacchi avvolti nella carta dello zucchero, blu. L’odore era terribile, ci metteva anche un po’ di incenso, ma funzionava!
Le parole virgolettate fanno parte del patois delle Valli di Lanzo, oggi quasi scomparso, sono le nostre origini, per quanto possiamo teniamolo in vita.