Lunga vita, Alpini carissimi!

Il Centenario del nostro Gruppo A.N.A.

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Con ogni probabilità non sono diventato alpino ( e, pur continuando a non amare molto le armi in genere, ancora un po’ ne me dolgo…) per via d’un punto esclamativo. Sì, dev’essere andata proprio così. Test fisico-psico-attitudinali, tappa fondamentale per stabilire il destino della naja nei tre giorni che le “visite di leva” prevedevano: alla domanda “ Ti piace la montagna?” non solo risposi o crocettai “ No” ma ci misi pure un bel punto esclamativo. Firmando la mia condanna. Di lì a poco, mentre Pio, Aldo, Dario e Sergio prendevano la via di Bra per il C.A.R., a me sarebbe arrivata la “cartolina rosa” recante “destinazione Barletta – 48° Reggimento Fanteria Ferrara”, con accompagnamento dell’amorosa frase del postino: “ Che bello, se ne parte per il paese mio!”.
E poi dicono che la punteggiatura non serve. “ Fantaccino” per colpa d’un punto esclamativo.
Il mio servizio militare fu una tragedia: mai visto un ospedale prima d’allora; ne vidi tre nel giro di due mesi. Le mie sedi – Barletta prima, Cividale e Udine poi – mi regalarono la stupenda visione che il nostro esercito fosse quanto di peggio organizzato: caserme fredde e fatiscenti, cibo da cani, rapporti umani inumani. Il periodo più brutto e più sterile della mia vita.
Solo una volta mi capitò di pensare che non tutto fosse quella roba brutta che purtroppo mi apparteneva. Campo invernale in Carnia; dopo tre notti passate in una casa diroccata a coprirci con una inutile coltre di coperte militari, e aver invidiato da morire le “ penne nere” della Julia che stavano al calduccio dentro i loro imbottitissimi sacchi a pelo, per non so quale miracolo, mi mandarono come staffetta nella caserma di Tolmezzo, quella dove stavano gli Alpini dell’11° Raggruppamento d’Arresto, quelli con la cravatta azzurra, per intenderci. Dopo due mesi di pessimo rancio fantaccino, il coniglio arrosto che mi diedero per pranzo me lo ricordo ancora, al pari dello straniamento che mi prese vedendo tutto lindo, pulito, con la gente persin felice d’essere a naja. Anche tra ufficiali e sottoposti era facile intuire un rapporto, un rapporto umano e non quella roba disumanizzante che vivevo io. Mai come allora rimpiansi quel punto esclamativo. Quel linguaggio, quello spirito di corpo che da me non si avvertiva minimamente, lì era proprio come avevo letto nelle parole di Mario Rigoni Stern: era vivo, reale.
Non era tutto da buttare via il nostro esercito, come invece dicevo e pensavo: c’era una parte sana ed efficiente che mi ritrovai addirittura a invidiare.
Quella sana efficienza l’avrei poi ritrovata e ringraziata nei giorni di maggio del ’76 quando il terremoto scosse e rovinò le terre del Friuli in cui ero stato infelice e nelle quali accorsero tra i primi e per portare aiuto i Gruppi Alpini dell’A.N.A. dando vita a un’incredibile catena di soccorso che si sarebbe declinata e trasformata di lì a poco nella spina dorsale della nascente Protezione Civile.
Se c’è un’immagine vera degli “Italiani brava gente”, questa è scolpita nei volti degli Alpini accorsi a portare aiuto e sollievo laddove il fato, nel corso dei decenni, s’è divertito a martoriare questo nostro disgraziato e suicida Paese.
Gli Alpini, scevro da ogni retorica, rappresentano la parte buona d’Italia, rappresentano quello che dovremmo sempre essere se solo sapessimo smettere di giocarci contro.
Pur parlando dialetti diversi, pur con estrazioni dissimili, gli Alpini finiscono per trovare un filo che lega, un filo sottile ma che è di tempra d’acciaio, capace di resistere a ogni avversità e nei secoli.
Tra le tante tragedie che il fascismo ci ha lasciato in dote, ce ne sono alcune che continuano a far sì che la nostra non riesca a diventare nazione. Parole come patria, disciplina, servizio, abnegazione, spirito di corpo sono sempre state connotate da noi con un che di militarista, perdendo ogni positivo accento. Eppure sono esse che, coniugate poi nel mondo del volontariato, hanno fatto sì che uno straordinario esercito armato di soli cuori e braccia diventasse la parte più consistente della spina dorsale d’Italia. Che cosa perderebbe e che cosa perderà il mondo senza i Gruppi A.N.A.?
Il nostro Gruppo proprio in questi giorni ha festeggiato il primo secolo di vita e l’ha festeggiato non solo pavesando a festa la città ma, soprattutto, proponendo e riproponendo tutta quella concreta voglia di fare che da sempre contraddistingue il Mondo Alpino.

Dal 1923, data della fondazione del nostro Gruppo, come dicono loro, molti zaini sono stati posati a terra e sono molti quelli che sono “andati avanti”, ma c’è sempre stato qualcuno che quello zaino l’ha risollevato quasi fosse il testimone da passare, quel qualcosa che andava assolutamente fatto per poter dire d’aver vissuto.
Chi è erede sa di non poter tradire chi non è tornato “ a baita”, sa di doversi appaiare a chi scavando tra i cocci e il fango delle nostre tragedie ha provato a ridare un senso a esistenze e macerie che di senso non ne avevano più. Sa che deve provare a diventare parte integrante del tessuto della città per farsi latore, per dimostrare quanto sia importante diffondere quel messaggio semplice e allo stesso tempo rivoluzionario che dice: “ Volersi bene non costa niente”.
La fine del servizio di leva obbligatoria ha ridotto e sta riducendo i ranghi del Mondo Alpino e c’è da temere che il numero calante possa rappresentare un danno incomparabile per il nostro Paese.
Ripeto: che mondo sarebbe senza l’aiuto degli Alpini?
Sicuramente un mondo con meno fratellanza, con meno capacità di comprensione, con meno voglia di mettersi al servizio degli altri.
È paradossale che alla fin fine in un corpo militare quello che finisce per contare di meno è rappresentato dalle armi. È evidente che il collante nel Mondo Alpino nasce da radici diverse, che vanno assolutamente preservate.
L’augurio che va al Gruppo Alpini di Caselle, e che dev’essere esteso a tutte le “ Penne Nere”, è che il loro mondo non finisca mai. Che ci siano altri centenari da celebrare e festeggiare: sarà la certezza che sono stati perpetuati i valori che stanno alla base della “Alpinitudine”.
Lunga vita, Alpini carissimi. Lunga vita al Gruppo A.N.A. di Caselle.
Continuando ad avervi a fianco sappiamo di poter proseguire il viaggio affratellati e sicuri.

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Elis Calegari

P.S. Non so perché, ma ora più che mai odio i punti esclamativi.

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Elis Calegari
Elis Calegari è nato a Caselle Torinese il 24 dicembre del 1952. Ha contribuito a fondare " Cose Nostre", firmandolo sin dal suo primo numero, nel marzo del '72, e, coronando un sogno, diventandone direttore responsabile nel novembre del 2004. Iscritto all' Ordine dei Giornalisti dal 1989, scrive di tennis e sport da sempre. Nel corso della sua carriera giornalistica, dopo essere stato collaboratore di prestigiose testate quali “Match Ball” e “Il Tennis Italiano”, ha creato e diretto “Nuovo Tennis” e “ 0/15 Tennis Magazine”, seguendo per più di un ventennio i più importanti appuntamenti del massimo circuito tennistico mondiale: Wimbledon, Roland Garros, il torneo di Montecarlo, le ATP Finals a Francoforte, svariati match di Coppa Davis, e gli Internazionali d'Italia per molte edizioni. “ Nuovo Tennis” e la collaborazione con altra testate gli hanno offerto la possibilità di intervistare e conoscere in modo esclusivo molti dei più grandi tennisti della storia e parecchi campioni olimpionici azzurri. È tra gli autori di due fortunati libri: “ Un marciapiede per Torino” e “Il Tennis”.

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