Il ritorno del “Macbeth” di Verdi al Teatro Regio

L’imminente ritorno (a giugno) del “Macbeth” di Verdi al Teatro Regio mi spinge ancora una volta a parlare di questo compositore.

Grande lettore di Shakespeare fin da quand’era ragazzo, Verdi ne restò segnato per tutta la vita. Oltre al sempre vagheggiato e purtroppo mai composto Re Lear, tre sono i suoi interventi sul “corpus” shakespeariano: Macbeth, Otello e Falstaff. Ma se le ultime due opere appartengono ai giorni della sua massima esperienza artistica, il Macbeth è frutto dell’irruenza e della focosità degli anni giovanili. Fu lui stesso a decidere di rivolgersi per la prima volta al teatro shakespeariano in occasione di un’opera da destinarsi al Teatro della Pergola di Firenze, confidando nella fama “intellettuale” di quel pubblico. Volgeva l’anno 1846 e l’incarico delicatissimo di cavarne fuori un libretto fu affidato a Francesco Maria Piave, anche se il compositore stesso ebbe gran parte nella stesura: preordinò la struttura, stabilì le scene che dovevano essere incluse, modificò, aggiunse, tolse e corresse, secondo il suo solito.

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Al momento di andare il scena (il 14 marzo del 1847), concertò e diresse con determinazione e caparbietà quasi feroci. E tanto numerose erano le novità della nuova partitura, da sbigottire non solo l’Impresario per la messinscena, anche i cantanti per i ruoli. E’ noto l’episodio relativo alle prove, quando gli interpreti, con già indosso i costumi scozzesi, furono costretti dall’autore a rintanarsi in una saletta a provare per l’ennesima volta il duetto dei regicidi: a tale richiesta il baritono sbottò esasperato “ma l’abbiamo già provato centocinquanta volte, perdio!” a cui Verdi rispose impassibile: “Non dirai più così fra mezz’ora, perché saranno centocinquantuna.”

Anche se il melodramma che oggi conosciamo è quello uscito dalla revisione del 1864, quindi più sapiente, abile, rifinito, la struttura portante è rimasta quella del 1847, a partire dal “Preludio”, che intreccia il tema inquietante delle Streghe con quello del Sonnambulismo, e dallo stile di canto, sempre improntato a un declamato severo. Come ci saranno i capolavori dell’età di mezzo e della vecchiaia, Macbeth è il capolavoro della giovinezza: un grande passo al di là delle convenzioni teatrali verso profondità psicologiche fino a quel momento mai scandagliate. Del resto la truce storia barbarica si presta a così tante interpretazioni, anche a livello della non ancor nata psicanalisi, da lasciarci stupiti per la volontà di indagine operata da Verdi: un tentativo così serio che sembra dar ragione a chi, al giorno d’oggi, non crede nella interpretazione freudiana di Shakespeare, ma se mai in quella shakespeariana di Freud. E’ stato detto che la pulsione che sospinge gli eventi non è tanto la sfrenata ambizione – l’hýbris –  quanto l’angoscia di un uomo che non ha figli e che si vendica su coloro che ne hanno (Banco, Macduff): giungerà persino a levare la spada contro le Apparizioni, cioè contro il Futuro, solo perché quella progenie non è la propria. “Realismo mozzafiato” e “gigantesca voragine” ha definito Paolo Gallarati l’impressionante serie di scene che si srotolano nel 1° atto dall’ingresso di re Duncano in poi. Negli atti successivi, l’episodio del banchetto, col brindisi falsamente lieto e la raggelante comparsa dell’Ombra di Banco, è risolto in modo rigoroso e spietato; mentre il grande invaso che contiene le apparizioni dei re, con quell’impasto a cornamusa di oboi, clarinetti, fagotti e controfagotti (“una sonorità strana, misteriosa, e nello stesso tempo calma e quieta” dirà Verdi) è qualcosa di esclusivo, di mai sentito fino ad allora.

Nella versione del 1847 Macbeth moriva teatralmente in scena, con una breve aria di sprezzo verso le ambizioni umane; nel 1864 Verdi optò per una soluzione corale assai più convincente, con la morte del protagonista fuori scena. Con questa variante di finale realizzerà la perfetta fusione dei temi etico-morali con quelli vocali-musicali.

Non fu facile far digerire al pubblico di allora un soggetto così crudele, privo persino d’un soffio di trama amorosa: quasi una contro-opera. Alcuni critici più aperti si sforzarono di sondarne gli angoli bui, tuttavia, malgrado il successo (che ci fu, sia pur di stima), il vero apprezzamento giunse con la revisione approntata nel 1864 per Parigi. Ma fu solo durante il secolo XX che quest’opera scalò il posto che le compete, molto in alto fra le sue sorelle, forse perché la sua unilateralità disumana al secolo XX calzava a pennello.

 

 

 

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Luisa Forlano
Luisa Camilla Forlano è nata a Boscomarengo, in provincia di Alessandria, e vive a Torino. Oltre all’amore per la Musica coltiva assiduamente quello per la Storia, in particolare per l’antichità classica, ma anche per i secoli a noi più vicini, quelli della rinascita della ragione. Ed è stato nel desiderio di far rivivere alcuni momenti storici cruciali che si è affacciata al mondo della narrativa: nel 2007 col suo primo romanzo “Un punto fra due eternità”, un inquietante amore ai tempi del Re Sole; e poi con “Come spie degli dèi” (2010), che conserva un aggancio ideale col precedente in quanto mette in scena le vicende dei lontani discendenti del protagonista del primo romanzo. In entrambe le narrazioni la scrupolosa ricostruzione storica costituisce il fil rouge da cui si dipanano appassionanti vicende umane, fra loro differenti, ma fortemente radicate nella realtà storica del momento.

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