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“Succede a volte, tra le anime dei poeti che ci sia una assoluta condivisione di emozioni, siano esse espresse in parole, siano invece raccontate per immagini”.
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E osservando e leggendo il contenuto di questa esposizione, lo si avverte benissimo. Janò Arneodo è poeta che scrive nella splendida lingua occitana e Roberto Beltramo è poeta che scrive con la luce.
Poesia che unisce le anime: l’esperienza poetica è assolutamente privata. Si aggroviglia e mescola, si contorce e poi esplode la parola, quella e solo quella che riesce a raccontare l’emozione. La fotografia ha tempi di esecuzione fulminei, ma …occhi che pensano a lungo. Vedo le mani di Janò Arneodo premere quotidianamente sulle sgorbie, ora leggere ora forti, per scavare e disegnare nel legno e mi par di sentire intanto la sua voce interiore che raccoglie frammenti di immagini, voci e rumori della sua montagna, per farne poesia. Seguo Roberto che vola con l’obiettivo sulla sua Val Maira e racconta anche quella di Janò: quei sentieri aggrovigliati, quella croce di faggio, la porta spalancata sul vuoto, il ruscello che porta lontano le sue acque e le sue genti, quei piloni votivi a cui vien voglia di inginocchiarsi piuttosto che nei santuari dorati.
“Isì, aven tout per prica-se
Sierv pa l’outal dourà,
vai ben lou miou vestì d’estrasse,
lou perfum de bruero e la chalour d’la tero.”
E Janò non può scrivere che in lingua occitana, quella che da sempre è la lingua della sua gente, come Roberto non può che affidare alla fotografia la voce della sua terra.
Lo fanno per se stessi, ma è un regalo immenso che entrambi offrono a tutta la grande provincia occitana, perché solo così continua ad essere viva. Mi piace tentare la lettura anche in occitano, dopo aver letto l’ottima traduzione in italiano, per scoprire il rincorrersi di certi suoni, per sentire gli echi profondi delle parole di Janò.
Che bello quel “charamaiado” per nevicata, o “ lou ben” la preghiera che vuole il bene! Significative le poesie che raccontano insieme il ricordo e
la fatica come quel “Draie de mountanho” : “draie”, “chamin” “viol” che segnano come vene di sangue il paesaggio e la vita.
E quando Janò parla di alberi, si avverte come ne conosca non solo l’aspetto, ma anche la resilienza, l’uso, la consistenza sotto lo strumento di lavoro e il profumo: e sono faggi, olmi, castagni, e sono piante di erica e rododendro.
Sempre presente, accorato, il pensiero di queste terre che la povertà ha costretto molti, troppi, ad abbandonare; e allora forse ultima speranza perfino inconsapevole, è che le sue poesie tengano vivo un mondo che dà radici e nutrimento al futuro e anche in questa occasione la fotografia di Roberto Beltramo gli tiene dietro passo a passo: la luna che tutto ha visto è ancora lì e ancora continua la sua poesia.
Chamen-se pa acò que i à, chamen-se pa ent pouen anà.
De tout noste mount, i è istà la luno e i nuech que van vio d’uno p’runo.
Ma non chiediamoci cos’è rimasto,
non chiediamoci dove possiamo andare.
Di tutto il nostro mondo sarà rimasta la luna e le notti che se ne vanno ad una ad una. (Janò Arneodo)