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domenica, Ottobre 13, 2024

    Preti e criminali

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    Il prete è, prima di tutto, un essere umano: quindi una creatura non perfetta, che dovrebbe comunque, per quanto consentito dalla nostra natura, cercare di avvicinarsi il più possibile alla condizione di armonia con la dimensione spirituale. Per farlo deve saper rinunciare a tutta una serie di riferimenti materiali finalizzati al potere e al trionfo dei valori “di questo mondo”.

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    La storia però ci narra che non sempre questa condizione è stata rispettata e alcuni uomini di Dio hanno commesso azioni malvagie, non solo perché convinti di operare per il trionfo del bene – come per esempio gli inquisitori – ma perché mossi dalla volontà di dominio, o di appagare desideri e piaceri spesso tra i più bassi della natura umana.
    A seguito di tali comportamenti, questi uomini di Dio hanno perduto completamente di vista il significato del loro ruolo e il messaggio di pace e fratellanza di cui avrebbero dovuto essere vessillo.

    Va obiettivamente osservato che la figura del prete, soprattutto nella tradizione popolare, è spesso contrassegnata da toni destinati a porre in rilievo il suo comportamento ambiguo, in cui molte delle sue valenze eminentemente spirituali sono del tutto soffocate da istanze di ordine materiale e spesso in diretta contraddizione al suo ruolo sociale.

    In genere questo atteggiamento demonizzante si basava sulla diffidenza della gente comune per le conoscenze del prete: conoscenze che erano spesso considerate come un Giano bifronte, forse finalizzate al bene, ma forse no. Tutto dipendeva dalla difficoltà di comunicare con il prete e certo, soprattutto fino alle soglie del XX secolo, da quell’ambiguo patrimonio di saperi di quell’uomo di Dio che, per la gente del popolo, era in continua tensione tra religione e pratiche non sempre comprensibili, tra fede e potere.

    A ciò si aggiunga che l’aura inquietante creatasi intorno al prete era sorretta, oltre che dall’immaginario popolare, anche da effettive derive in direzione criminale: infatti nei secoli passati non furono rari i processi contro gli esponenti del clero, accusati di crimini contro il patrimonio, violenza, stupro e non ultime le pratiche di magia nera. È evidente che questo ampio corpo di reati, potrebbe in effetti aver favorito la formazione di una vasta serie di credenze intorno ai preti, contese tra realtà e fantasia, rendendo spesso difficile risalire con precisione all’effettiva entità dei fatti.
    Ciò naturalmente non succede, quando si dispone di fonti storiche, con l’ausilio delle quali è possibile riferirsi ad eventi documentati e certi. Comunque, il sostrato socio-culturale che rendeva il prete una figura particolarmente ambigua contribuì naturalmente alla formazione di alcune leggende, come si evince dall’ampio patrimonio mitico del folklore europeo; ma non tutto era fantasia…

    Va detto che, in alcuni casi, l’incipit alla denuncia ab personam di un prete non era solo legata al “sentito dire” e all’universo mitico che ne accompagnava la figura, ma anche ad alcuni fatti specifici.
    È il caso di don Michele Facero, che nel 1577 esclamò pubblicamente: “vengha il cancaro a Iddio che manda tutta la robba a li uni et niente alli altri” (Archivio Storico di Torino, Acta criminalia. Processo contro il curato Michele Facero, 1577).

    Singolare e grottesca la storia di don Epachio, così come è singolare e grottesca la punizione che l’inquisitore Francesco Maria Guazzo (1570-1640) attribuisce alla giustizia divina abbattutasi sul peccatore: “Pur desiderando molto celebrare i riti della vigilia di Natale, Epachio usciva ogni istante dalla chiesa per fare un capatina in casa a tracannare bicchieri su bicchieri (…) annebbiato dal vino nel momento in cui si accinge a distribuire l’Eucarestia ai fedeli, Epachio si mette prima a nitrire come un cavallo, poi stramazza al suolo, mentre di bocca gli esce, con la bava, la particola che non ha ancora inghiottito e che cade in mano a coloro che lo stanno portando fuori dal logo sacro (…) ebbe attacchi periodici a ogni novilunio” (F.M. Guazzo, Compendium maleficarum, Libro II, Cap. X).

    Accanto a prove di ostentata “umanità”, come nei casi citati, vi potevano essere cause ben più gravi atte a rendere  ancora più peccaminoso il comportamento del prete, troppo lontano dalle sue funzioni spirituali.
    Per esempio il curato di Volvera, Giovanni Moretto, “ha detto molte parole ingiuriose contro Maria, sorella di Giovanni Bernardo; cioè che era puttana ribalda et che in ogni modo voleva haver commercio carnalmente con lei per amor o per forza (…) più che il giorno della purificazione della Madonna prossima passata, esso prete assaltò messer Giacomo Costa avanti il Palazzo delli Scovo, con doi pistoletti che haveva, con uno de quali si credette amazzare detto Costa (…) et una volta tra le altre esso prete in tavola, cenando in casa di Giordano Porporato hospite in la Volvara, di compagnia di lui teste e di molte altre persone con poca honestà parlando, che egli haveva fottuto detta Maria, e la fotteva al suo beneplacito” (Archivio Storico di Torino, Acta criminalia. Processo contro il curato Giovanni Moretto, 1575).

    Don Ambrogio Martini fu condannato a morte in contumacia dal Tribunale dell’Inquisizione poiché avrebbe detto: “Possano venire tanti lutherani et vadino a Roma a sparare al papa”; inoltre, in occasione della caduta in acqua di un’immagine sacra nel corso di una processione avrebbe esclamato: “la Madonna è andata a pescare”.

    Nel 1605, un certo don Giovanni Ferroglio, di Ceres, divenne ben presto oggetto di attenzione da parte della giustizia religiosa e laica, poiché abitualmente circolava con pistola e bastone con anima in ferro appesi alla tonaca; era “circondato d’amanti” e svergognava le ragazze nubili, diffamandole “nell’honore con scandalo et mormurazione del populo, essendo esse da maritare” (Archivio Storico di Torino, Processo contro il curato Giovanni Moretto, 1605).

    (prosegue nella seconda parte)

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