Le prime avvisaglie della tragedia, furono avvertite da Alfredo Garrone che, come ogni mattina, anche quel 21 novembre si era recato in cascina per ritirare il latte.
Alcune luci notturne ancora accese, nessuna presenza umana e soprattutto il lamento delle mucche non munte, furono considerati dal Garrone segni inequivocabili che qualcosa non andava per il verso giusto.
L’arrivo alla Simonetto di Berto Reinaudo, uomo di fiducia dell’avvocato, spinse i due a entrare superando la recinzione. La scena era tale da accrescere l’inquietudine: ecco come la descrisse Garrone: “In cucina c’era un bambino che piangeva (il bambino, quando i criminali giunsero alla cascina – intorno alle sette di sera – dormiva e non si accorsero di lui, n.d.a.) di circa tre anni, nipote del fittavolo. Dappertutto un grande disordine: piatti rotti, schizzi di bagna caoda sui muri, cassetti aperti: tutto faceva pensare che qualcosa di grave fosse successo. Mi precipitai in paese, presso l’unico telefono esistente a Villarbasse per avvisare i carabinieri di Rivoli e dal quel momento la nostra vita non fu più quella di prima”…
Furono in tanti a pensare al peggio. Si cominciò a cercare nei campi e nei boschi circostanti. L’apprensione era forte: lasciava tutti perplessi la presenza di quel bambino abbandonato, evidentemente solo un avvenimento repentino e un epilogo tragico avrebbero indotto gli adulti della cascina ad abbandonarlo.
Mentre la gente guardava in giro, qualcuno rinvenne un cappello, nel suo interno c’erano tracce di materia cerebrale (in seguito si appurerà che apparteneva all’avvocato Gianoli). Un indizio che evidentemente non poteva fare altro che suggerire scenari tragici.
Mentre le ricerche procedevano a tutto campo, Villarbasse cominciò a essere meta dei giornalisti: certo non si può pensare agli afflussi a cui oggi siamo abituati, ma quella piccola località alle porte di Torino per qualche giorno balzò alla ribalta della cronaca nazionale: ma era solo l’inizio.
Si parlò di un mostro (allora si diceva ancora “maniaco”), di vendette trasversali, di odi mai sanati, anzi esasperati dagli echi della guerra.
Non mancarono ipotesi e indiziati: persone che forse potevano volere la morte del proprietario della cascina; così come non mancano i nomi e i sospetti. Ma mancavano le presunte vittime.
La macchina dell’indagine coinvolse alcune persone: tra i primi a essere accusati un certo “Carmelo il boia”, un siciliano ex partigiano, noto alle forze dell’ordine per il suo passato in cui figuravano episodi di violenza, che coinvolsero anche l’avvocato Gianoli.
Tra la gente del posto, quel Carmelo era indicato come una persona che forse nutriva dei rancori nei confronti del proprietario della cascina Simonetto. Per il suo passato durante la guerra partigiana era indicato con il non rassicurante appellativo: “il boia”.
Per molti era una persona pericolosa, che sapeva molte cose sulla cascina: la sua descrizione, anche dal punto di vista della fisionomia, era tale da esasperarne la malvagità.
Abitava a Leinì, era di origine calabrese, aveva ventidue anni e quanto venne arrestato dai carabinieri la gente sembrava sull’orlo di lasciarsi andare a un linciaggio: difficile non capire lo stato d’animo collettivo. Ma è altrettanto doveroso comprendere che forse quel Carmelo era finito nella spire dell’indagine malgrado la sua innocenza. Infatti risultò che con la scomparsa degli abitanti della cascina non aveva alcun rapporto: fu colto da una crisi epilettica e ricoverato in ospedale.
La caccia al Carmelo, portò in carcere altre persone con questo nome, nessuno però venne incriminato
Venne poi individuato un altro Carmelo che secondo la vox populi poteva essere quello ricercato. Si trovava in Sicilia, venne arrestato dai carabinieri che inviarono un fonogramma a Torino in cui, oltre a confermare il fermo, si sottolineava: “l’uomo in questione è persona quieta, tranquilla, di mezza intelligenza”…
Che cosa intendessero con l’indicazione “mezza intelligenza”, resta un mistero del linguaggio tecnico di allora.
Ma c’era da considerare un fatto molto importante: Carmelo era stato al Nord, dove aveva combattuto come partigiano, poi si era fermato a lavorare in una cascina per qualche tempo, quindi aveva fatto ritorno a casa.
L’affaire Carmelo offrì notevoli spunti ai giornalisti, danneggiano così notevolmente le indagini.
In seguito, il 16 gennaio 1946, il Carmelo che di fatto la sera del delitto si trovava nella sua regione, cercò una rivalsa: emblematico il titolo de “La Gazzetta del Popolo” del 16 gennaio 1946: “Carmelo fa causa per danni alla Questura di Torino e ai giornali”.
L’uomo chiedeva quattrocentomila lire di risarcimento e forse aveva le sue ragioni: “Mi hanno preso e sbattuto in galera prima della stagione della semina, quindi ho perduto tutto il mio raccolto, nessuno mi poteva aiutare, e per di più sono stato diffamato. Mi pare logico che qualcuno mi paghi il danno”.
Mentre la pista Carmelo era ancora considerata un indizio importante, il 28 novembre, la vicenda assunse lo sviluppo peggiore: casualmente fu sollevato il coperchio del pozzo che consentiva l’accumulo dell’acqua per alimentare l’intero complesso della Simonetto. Quello stretto condotto conteneva le dieci le vittime. Furono tutti ridotti in fin di vita a bastonate, mutilati e gettati ancora vivi nel pozzo dove continuarono ad agonizzare fino al sopraggiungere della morte liberatoria.