Da noi il 21 di marzo è il primo giorno di primavera, mentre a Kabul, per la comunità persiana, è Nawruz, capodanno. Per non perdere la tradizione, come sempre, nella zona ovest della città, la minoranza sciita ha preparato le celebrazioni della ricorrenza, il nuovo anno persiano, tra aquiloni, palloncini e dolci.
Questo scenario è stato rapidamente stravolto dall’azione di un attentatore suicida. L’uomo è arrivato a piedi nei pressi del santuario di Kart-e Sakhi. Era il suo obiettivo, ma si è imbattuto in un posto di blocco della polizia. Allora ha azionato il giubbotto esplosivo e si è fatto saltare in strada, tra i giovani che si radunavano.
Il bilancio diffuso dal ministero dell’Interno: 29 morti e 18 feriti. L’attentato è stato rivendicato dall’Isis. I fondamentalisti considerano il Nawruz “non islamico”.
Questo è quanto riferito dai media; noi ascoltando o leggendo questa notizia, veniamo immediatamente presi da un attimo di sconforto misto a disgusto; ma subito dopo riprendiamo a pensare alle nostre cose. In fondo queste notizie lasciano meno traccia delle previsioni del tempo, siamo più propensi a commentare una previsione meteorologica che ci disturba, che ci penalizza in qualche modo.
L’Afghanistan è un mondo che non conosciamo, anzi non abbiamo nemmeno mai avuto modo di conoscere qualcuno proveniente da quelle parti. E’ in guerra da sempre, dicono da quarant’anni, per loro è quotidianità, l’importante che non vengano da noi a fare queste cose.
Che c’entriamo noi con loro? Eppure dovremmo centrarci; perché dal sito del Ministero della Difesa copio letteralmente:”l’attuale contributo nazionale prevede, dal 1° gennaio al 30 settembre 2018, un impiego massimo di 900 militari, 148 mezzi terrestri e 8 mezzi aerei, suddivisi tra personale con sede a Kabul, e contingente militare italiano dislocato ad Herat presso il TAAC-W.” Poi si sa che dalle intenzioni alla realtà c’è sempre un margine di variazione, quindi deduco oltre un migliaio di militari a difendere chi e che cosa? Vogliamo sapere troppo, limitiamoci a contribuire, immaginando, con una buona dose di ottimismo, che una parte dei nostri proventi d’imposta possa servire a portare finalmente pace in questo Paese.
Se ultimamente se ne parla meno significherà forse che la situazione si sta normalizzando. Però, dato che mi fido poco delle fonti ufficiali prendo in mano il notiziario di Emergency, che in Afghanistan ha ben due centri medico-chirurgici per vittime di guerra (uno a Kabul e uno al sud del Paese a Lashkar-gah), due centri al nord a Anabah (uno medico chirurgico aperto nel ’99 e uno di maternità in funzione dall’inizio dell’anno scorso). Di loro ci possiamo fidare, perché si scontrano quotidianamente con la realtà del luogo. Riporto un pezzo di Roberto Maccaroni, un infermiere anconetano, in servizio a Lashkar-gah. “Il rischio maggiore è abituarsi alla guerra come se fosse la normalità.
Bombardamenti e raid aerei di notte, sparatorie e attentati di giorno. Abituarsi alla guerra è un rischio, perché significa aver perso umanità. Io non voglio perderla, non puoi perderla se fai l’infermiere.
Tre giorni fa un’esplosione in città, sono arrivati più di 40 feriti, tutti assieme. Qualcuno è morto subito, qualcuno dopo un po’, altri il giorno dopo, tra di loro diversi bambini. Ieri pomeriggio un’altra esplosione, un altro macello, il pronto soccorso che sembra un mattatoio, decine di persone corrono rischiando di scivolare sul sangue, schivando barelle messe ovunque. La sala operatoria chiama, via radio, chiedendo sangue. Nei reparti si cerca di tamponare le ferite a quelli che sono in attesa di entrare in sala operatoria. Come racconterei ad un figlio quello che vedo qui? Gli direi che il rumore della guerra non sono solo le urla e i pianti ma anche un rantolo che esce appena dalla bocca, il suono metallico di una scheggia che butti in terra, dopo averla tolta da una gamba. Gli direi che lo sguardo della guerra è quello di un uomo su una barella, che si rende conto che non ha alcuna possibilità di salvarsi, e noi non possiamo dedicarci a lui, perché toglieremmo assistenza a chi speranze né ha. Gli direi che è bene ascoltare tutte le opinioni, che è legittimo che tutti le possano esprimere, anche quando sembrano disgustose. Ma c’è qualcosa che non solo è legittimo, anzi doveroso. Il silenzio”.
Un giorno a Kabul
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