L’economia viene considerata una scienza. Le scelte politiche della maggior parte dei Governi si basano sulla previsione di “esperti economisti”, che vengono spacciate per verità scientifiche. Dopo secoli di discutibile progresso, in cui la crescita era la quintessenza stessa del senso della storia e delle speranze terrene, può sembrare effettivamente strano pensare di fermare la corsa o almeno rallentare. Una corsa che è diventata autodistruttiva, come ormai tutti sono costretti ad ammettere, salvo i politici con una visione limitata e opportunista. Sono lì a documentarlo l’effetto-serra, l’inquinamento dell’aria, del suolo e dei mari (vedi un’immensa isola di rifiuti plastici nell’oceano), la deforestazione, l’invasione di composti chimici non più domabili, lo scioglimento dei ghiacciai perenni, le tonnellate di rifiuti nucleari senza una collocazione sicura, e un ulteriore lunghissimo elenco di ferite della biosfera e dell’umanità. Bisogna dunque riscoprire e praticare dei limiti: rallentare (i ritmi di crescita e di sfruttamento), abbassare (i tassi di inquinamento, di produzione, di consumo), attenuare (la nostra pressione verso la biosfera). Un vero «regresso», rispetto al «più veloce, più alto, più forte». Difficile da accettare, difficile persino a dirsi. Tant’è che si continuano a recitare formule che tentano una contorta quadratura del cerchio parlando di «sviluppo sostenibile» o di «crescita qualitativa, ma non quantitativa», salvo poi rifugiarsi nel vago quando si tratta di affrontare in concreto l’inversione di tendenza. Ed invece sarà proprio quello ciò che ci è richiesto, sia per ragioni di salute del pianeta, sia per ragioni di giustizia. Non possiamo moltiplicare per 7,5 miliardi di persone l’impatto ambientale medio dell’uomo bianco ed industrializzato, non possiamo neanche pensare che 1/5 dell’umanità possa continuare a vivere a spese degli altri 4/5, oltre che della natura e dei posteri. E’dura. Basti pensare all’estrema fatica con cui il fumatore, il tossicomane o l’alcoolista incallito, affrontano l’abbandono dalla loro dipendenza, pur se persuasi dei rischi che corrono se continuano, e sull’insostenibilità della loro condizione. Il medico che tenta di convincerli fomentando in loro la paura della morte o dell’autodistruzione, di solito non riesce a motivarli a cambiare strada, piuttosto convivono con la mutilazione e cercano rimedi per spostare un po’ più in là la resa dei conti. Siamo tutti tossicomani, fumatori, alcoolisti. I rimedi sono solo dei palliativi, incapaci di risolvere la dipendenza dalla nostra autodistruzione. Dovremo imparare ad adottare una nutrizione più equa e più compatibile con l’equilibrio ecologico e sociale, dei tempi e ritmi più umani e meno energivori, un ciclo più armonioso con la natura. Passare, insomma, dalla ricerca del superamento dei limiti ad un nuovo rispetto di essi. Non basteranno la paura della catastrofe ecologica o i primi infarti e collassi della nostra civiltà (da Chernobyl alle alghe dell’Adriatico, dal clima impazzito agli spandimenti di petrolio sui mari) a convincerci a cambiare strade. Non basteranno perché la nostra incoscienza e avidità non è curabile.
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