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Comune di Caselle Torinese
sabato, Luglio 27, 2024

    Mappano, la cascina Badaria

    MAPPANO E LA STORIA DELLE NOVANTA GIORNATE – seconda parte

    StorieNostreWeb_ColombattoCome visto nel numero scorso, l’antico territorio paludoso dell’attuale Mappano, denominato Regione Fanghi, a partire dal XVI secolo, venne gradatamente bonificato con la formazione di numerosi canali che permisero lo scolo delle acque e la progressiva messa a coltura dei terreni.

    Così, terreni un tempo incolti e non sfruttabili, iniziarono a prendere valore tanto da generare l’insorgenza di varie liti per il loro possesso, come abbiamo visto nell’articolo del mese scorso: Leinì contrapposto a Caselle per il pascolo detto delle 90 giornate.

    Assegnata la proprietà definitivamente al Comune di Caselle, all’inizio del 1700, questi la mise a “pubblico incanto” per la sua vendita, con la condizione di realizzarvi una cascina e coltivare i terreni ormai semi abbandonati.

    la cascina Badaria vista dal lato nord

    Questi erano anni veramente difficili per l’economia piemontese, ma anche casellese, che cercava in tutti i modi di recuperare fondi, anche vendendo il diritto di eleggere il Sindaco, che per almeno un decennio rimase a favore di Paolo Gonella, fino a quando il Comune non riuscì a riscattare il diritto restituendo la somma a suo tempo incassata.

    All’inizio del 1700 venne così deliberata la vendita delle 90 giornate al Signor Antonio Quadro1, e da questo pochi anni dopo vennero cedute all’avvocato Giovanni Rollando Vercelino, il quale a sua volta le cedette ai sacerdoti Don Pietro Michele Maffei e Don Giovanni Michele Bonfiglio entrambi di Leinì, con atto di compravendita del 24 giugno 1726.

    Tracciare una storia delle cascine è sempre molto difficile, in quanto i documenti diretti, legati alle famiglie proprietarie, normalmente sono andati dispersi nel tempo.

    una delle finestre rimaste dell’antica stalla

    Così è anche in questo caso, e per ripercorrere la storia occorre cercare in vari documenti indiretti, iniziando da quelli catastali, per finire a liti varie, censimenti, atti di vendita, ecc., dove senza avere notizie dirette sulle cascine, si riesce a ricostruirne la storia mettendo insieme tutte le piccole informazioni come se fosse un puzzle di cui però non si conosce il disegno finale.

    Un documento presente nell’archivio della Parrocchia di San Giovanni, definito “Stato delle Anime” del 17282, oltre a farci conoscere che la cascina era abitata dalla famiglia di Giuseppe Cavalà composta di otto persone (moglie, 4 figli e due fratelli), contiene una annotazione molto importante che permette di conoscere con esattezza (caso raro) la realizzazione del fabbricato: “Cassina delle Novanta giornate construtta nell’anno scorso 1727 dalli M. R. Sig. Bonfiglij di Leynì, e benedetta da me M. Giuseppe Antonio Perzolio Curato di San Giò Evangelista di Caselle il di 23 Marzo 1728”.

    Fu quindi grazie al reverendo Bonfigli3, insieme a Don Maffei, che venne messo a coltura l’antico pascolo, in parte incolto, costruendovi dentro la proprietà, ai margini della strada per Torino, una cascina.

    Nel volume delle mutazioni catastali dell’archivio storico del Comune di Caselle viene citata per la prima volta la tenuta nel 1729 dove si “scarica” da Francesco Quadro a favore di Don Pietro Michele Maffei, il “tenimento” delle 90 giornate che però misurava solamente 80 giornate, 97 tavole e 7 piedi, corrispondenti a circa 30,7783 ettari, da cui il 22 giugno 1731 vennero dedotte 36 tavole (circa 1370 metri quadri) a seguito del riconfinamento tra Caselle e Leinì per definire la causa di possesso del pascolo descritta nel numero scorso.

    In questo documento non viene più citato Bonfigli, che forse nel frattempo aveva ceduto la sua quota al comproprietario, anche se per ora non ho trovato traccia del documento.

    L’AZIENDA AGRICOLA

    Intanto la cascina, inizialmente gestita dalla famiglia Cavalà, nel 1729 passò sotto la gestione di Giovanni Domenico Garetto che vi abitava insieme alla sua famiglia per un totale di nove componenti, sicuramente tutti dediti alla coltivazione del podere.

    uno dei pochi ambienti della mani sud realizzata all’inizio dell’ottocento ancora rimasto come un tempo

    Una descrizione più precisa della proprietà la troviamo nel catasto del 1746 e dalla sua relativa mappa, che così descrive i possedimenti del reverendo Don Pietro Michele Maffei: “Campo, forno, fabrica e prato alle Novanta Giornate, corenti a mattina e notte le fini di Leyni tramediante il fosso mettà compreso, a mezo giorno Signor Giambatta Canova, la Communità, a sera detta Communità, et la strada publica di Leyni, di taole Otto milla cento quaranta quattro piedi sei allibrato a denari cinque.
    Cioè il n° 755: Campo di taole 266:-756: Forno “0:9 757: Fabrica “11:-758: altro Campo “2.105:-759: Prato “5.191:9-760: altro Campo “579: Totale Tavole 8.144:6 corrispondenti a giornate 81,445 pari a circa 30,9569 ettari.

    Dall’analisi della proprietà si può vedere che l’azienda, in un unico grande appezzamento, era coltivata per il 36% a campo per la produzione di granaglie, e per il 64% a prato, denotando questo una forte produzione di fieno che sicuramente era destinato all’allevamento di bovini all’interno dell’azienda stessa.

    Secondo i documenti dell’epoca4 a Caselle i campi normalmente un anno venivano seminati a frumento, e quello successivo a segala, mentre i prati, per la maggior parte dei casi, si tagliavano due volte l’anno, con una produzione media di fieno di 2 tese5 per giornata.

    Quello che mancava completamente in questa azienda era la presenza di una parte di superficie destinata a bosco, al contrario di tutte le altre aziende casellesi (e non solo) che in genere destinavano ad esso una media del 30% della superficie territoriale per sopperire alle necessità di legname, sia per il riscaldamento invernale, che per la realizzazione degli attrezzi e carpenteria varia.

    Questa azienda, di media dimensione, era condotta da un affittavolo o mezzadro6 ed aveva sostanzialmente una base economica di tipo policolturale che in parte si esauriva nell’autoconsumo familiare, e solo in parte si apriva ai canali commerciali.

    Per i due secoli successivi, fino quasi ad oggi, i terreni aggregati alla cascina rimasero sempre quelli, se non con variazioni nelle colture, alternando prati e campi a seconda delle necessità del tempo.

    IL FABBRICATO

    Il particolare carattere economico e sociale di questa azienda, a conduzione familiare, si era ripercosso sicuramente anche sulla dimora rurale; anche se non vi sono descrizioni puntuali dell’edificio, dalla mappa catastale del 1746, e dai riscontri in altre aziende simili del Torinese, si può presumere che fosse estremamente semplice sul piano costruttivo.

    tettoie realizzate nei primi decenni del ‘900

    Come si vede dalla mappa, il fabbricato era inizialmente costituito da un unico corpo a manica semplice, lungo circa 40 metri e profondo 8, diviso in due parti distinte, una ad ovest destinata all’abitazione, comprendente una grande cucina e una camera o cantina al piano terra, e le camere da letto al piano superiore; e l’altra costituita dalla stalla con soprastante fienile terminante in una o due campate di tettoia per il ricovero dei carri.

    Al piano superiore dell’abitazione si accedeva per una scala esterna che terminava in una “lobia” (ballatoio) in legno coperta da un tetto assai sporgente; davanti alla casa si estendeva l’aia, di grande importanza quando la trebbiatura si faceva a mano.

    interno di una parte dell’antica stalla della manica nord, ora trasformato in ufficio, in cui si vedono le volte ad arco ribassato realizzate nel XIX secolo, quando probabilmente vennero rifatte le antiche volte.

    L’orientamento della manica era rigorosamente est-ovest, in modo che la facciata principale, che si apriva sul cortile, fosse rivolta verso sud in modo da essere ben esposta al sole per facilitare l’essicazione dei prodotti agricoli e la loro conservazione, soprattutto nel periodo invernale.

    Come quasi sempre accadeva con le cascine lontane dai centri abitati, anche alla cascina delle novanta giornate non mancava il forno per cuocere il pane, realizzato in un piccolo fabbricato adiacente all’abitazione, ma staccato per evitare pericoli d’incendio.

    Questo forno era posto sul lato ovest verso la strada che da Torino portava a Leinì, ma nel 1768 venne demolito con i lavori di rettifica della strada “Ducale” che da quel momento venne a passare proprio a fianco della cascina, come si ritrova attualmente.

    In seguito, con l’evoluzione delle tecniche colturali, il fabbricato subì un progressivo ampliamento, principalmente con l’aumento delle tettoie e dei magazzini, dovuto ad un incremento della produzione agricola a parità di superficie territoriale.

    Pur non avendo documenti diretti che testimoniano queste variazioni edilizie, dalle varie mappe catastali si può notare che nel 1810 il corpo principale si era allungato di una decina di metri, e di fronte presentava un piccolo corpo di fabbrica contrapposto che nel 1860 nella “mappa Rabbini” risultava ulteriormente allungato raggiungendo la misura di quello posto frontalmente.

    Planimetria elaborata sulla base del catasto del 1746 in cui si vede la cosistenza aziendale dellepoca.

    Questo corpo era sicuramente una tettoia che ancora oggi si può vedere in parte, in cui si nota che la parte bassa del muro esterno era l’antico muro di recinzione su cui venne addossata la nuova tettoia.

    Alla fine del secolo XIX, con la necessità di ampliare ulteriormente gli spazi di deposito, venne aggiunta una nuova manica, questa volta perpendicolare, sul lato est, che unendo i due fabbricati paralleli esistenti, trasformò l’edificio nella tipica cascina a corte chiusa.

    Al contrario delle grandi cascine della bassa pianura Padana, che per la loro estensione già nascevano a corte chiusa, nel nostro territorio quasi tutte le cascine a corte chiusa inizialmente erano composte da fabbricati semplici, per poi subire una lenta ma progressiva evoluzione, come per questa cascina.

    la pagina del sommarione del catasto del 1746 in cui sono riportati i beni di Maffei.

    La cascina detta delle 90 giornate rimase di proprietà del reverendo Michele Maffei fino al 1771, mentre alla conduzione dell’azienda si avvicendarono diversi affittavoli, come la famiglia di Gasparo Cantone fino al 1759, per poi passare a Tommaso Ceruto dal 1760.

    E’ proprio in questo anno che per la prima volta compare sui documenti il nome di Badaria, non si sa con quale significato, forse una derivazione del verbo badare perché il proprietario o l’affittavolo ne avevano particolare cura.

    l’estratto del libro dello stato delle anime in cui è scritta la data di costruzione della cascina.

    Il 17 ottobre 1771 il reverendo Don Maffei, che aveva già una certa età, vendette tutta la proprietà al Conte Ignazio Donaudi, che però due anni dopo, il 10 giugno 1773 la rivendette al Conte Regis che a sua volta il 12 maggio 1778 la passò al Sig. Giuseppe Richetta, finchè il 24 maggio 1786 venne rivenduta al Sig. Uberto Richiardi.

    Stranamente nel catasto napoleonico del 1816 la cascina Badaria risulta di proprietà di Francesco Bertino, ma nei registri di mutazione catastali di questo passaggio non vi è traccia, mentre si ritrova nell’anno 1836 nuovamente Uberto Richiardi che con suo testamento nomina eredi universali delle sue proprietà i suoi figli Luigi, Vincenzo, Enrico e Camilla.

    Dopo alcuni decenni di comproprietà, con atto di divisione del 27 dicembre 1862 la cascina casellese venne assegnata in esclusiva a Luigi Richiardi, per poi passare alla sua morte ai suoi eredi.

    All’epoca la famiglia Richiardi viveva nel palazzo torinese di proprietà; nella divisione suddetta tra i fratelli, la casa di Torino venne assegnata ad Enrico, e così probabilmente Luigi e la sua famiglia vennero ad abitare stabilmente a Caselle nella loro cascina.

    la manica est della cascina

    L’antica abitazione rurale non era sicuramente sufficiente per ospitare i proprietari, che così la trasformarono in villa signorile, costruendo per i contadini una nuova abitazione nella manica ad est.

    Un’ultima e importante trasformazione della cascina, con la formazione di un portico di separazione tra la corte rustica e quella civile e la creazione di una cappella gentilizia, avvenne poi negli anni ’30 ad opera della damigella Camilla Richiardi, ma di questo ne parleremo più ampiamente in un prossimo articolo.


    Note

    1 La famiglia Quadro era molto influente nella vita casellese tra la fine del 1600 e l’inizio del’700, con i suoi fratelli Antonio, medico chirurgo, Don Marcantonio che nel 1679 era vicario di Santa Maria, e Francesco, farmacista che secondo gli scritti di F. Miniotti fu promotore della costruzione della chiesa dei Battuti.
    2 Gli “Stato delle Anime” erano una sorta di censimento di tutti i parrocchiani in cui il Parroco indicava chi era battezzato e chi no.
    3 Nel libro Caselle e le sue vicende, di F. Miniotti, Bonfigli viene appellato come Mastro intendendolo come impresario costruttore, invece era il proprietario della cascina insieme a Don Maffei.
    4 Archivio di Stato di Torino sezioni riunite, allegato I del 1709.
    5 La tesa era un’unità di misura volumetrica utilizzata per quantificare il fieno e la paglia ed era equivalente a 5,0226 metri cubi attuali.
    6 Per ora non ho trovato alcun contratto che regolava il tipo di conduzione, ma normalmente erano date in affitto per 5 anni.

     









    doc icon evoluzione-cascina-Badaria.doc

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