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mercoledì, Dicembre 4, 2024

    La storia di Vincenzo Armeno

    Li Cunti di Vittorio

    Quando in Italia si cantava “Faccetta nera, bell’abissina”, migliaia di giovani italiani partivano per occupare l’Etiopia.

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    La mattina del tre ottobre 1935 le truppe di invasione italiane, appoggiate dagli ascari della Somalia ed Eritrea italiane, varcarono i confini di queste regioni e invasero l’Abissinia.
    Con questo gesto iniziava la guerra coloniale italiana per occupare ed annettersi i territori etiopi governati dal carismatico imperatore Haile Sellassie.
    L’obiettivo dichiarato e cercato era quello di costruire l’impero, aggiungendo l’Etiopia all’Eritrea, alla Somalia e alla Libia, invasa e conquistata nel 1911. La preparazione, iniziata nel 1932, era stata lunga e travagliata. Mussolini non lesinò uomini e mezzi al maresciallo De Bono, comandante delle operazioni in Etiopia, successivamente sostituito da Graziani.
    La mobilitazione fu imponente. Furono necessari 536 viaggi in mare per trasportare sul teatro delle operazioni uomini, salmerie, armamenti, materiali, ecc. I viaggi iniziarono nel febbraio  del ‘35.
    Nel solo mese di Ottobre 1935 sbarcarono a Massaua, trasportati da 120 piroscafi: 60.500 uomini, 11.500 muli, mezzi, armamenti, materiali.

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    Su uno di quelle navi c’era Vincenzo Armeno, un ragazzo di 24 anni proveniente dalla provincia di Napoli, che da qualche anno aveva concluso la lunga e dura leva militare di tre anni a Tortona.
    Il porto di partenza era stato, ovviamente, Napoli. Quello di approdo Massaua. Il viaggio? 7/8 giorni,  in condizioni disagiate e senza nessun confort. C’erano militari che dormivano sul ponte. Non c’era posto per tutti nelle brandine.
    Durante i giorni di navigazione, in quel riposo forzato, una sorta di calma prima della tempesta, la mente  di Vincenzo riandava a quello che era stata la sua vita fino a quel momento: avara di soddisfazioni ma ricca di fatica e sacrifici. Come tutti i figli del popolo, del resto.
    Aveva perso la mamma molto presto, intorno ai 7/8 anni. A dieci anni dovette andare a lavorare: manovale muratore. Trasportava a spalla la “ cardarella”: il secchio della malta, porto poi ai mastri di cazzuola. Un lavoro pesante. Data la sua età non riusciva da solo a sollevare il secchio fino alla spalla, ed allora a questo provvedevano i manovali adulti. Una fatica infame per pochi soldi.
    Nonostante la giovane età, questo faceva di Vincenzo un uomo che si era caricato sulle spalle il peso della famiglia. Toccò a lui dare le garanzie al panettiere che sarebbe stato pagato puntualmente.
    Aveva fatto anche qualche esperienza importante. Per un certo periodo lavorò da mastro muratore  a Capri, uno dei luoghi più alla moda già a quei tempi. Qui, nonostante fosse un semplice operaio, entrò in contatto con un mondo fatto certamente da persone ricche ma anche colte e disinibite. Da giovane intelligente qual era, comprese l’importanza della cultura. Convinzione, questa, che l’accompagnerà per tutta la vita e che trasmetterà ai figli: il sapere dona dignità.
    Ed ora ecco che assieme a tanti ragazzi come lui, che avevano la paura e il terrore negli occhi, andava in guerra in Etiopia. Una terra lontana di cui non aveva mai immaginato l’esistenza. Si domandavano: “Ma cosa ci hanno fatto questi poveracci come noi, perché dobbiamo combatterli?”
    Rimase in Etiopia fino al 1938.

    Tornato in Italia nel 1940 riprese a fare il muratore e decise, assieme alla sua amata fidanzata Giuseppina, di sposarsi. Anticiparono il matrimonio per evitare di tornare al fronte: cominciava la seconda guerra mondiale. La vita quotidiana continuava abbastanza tranquilla, nonostante la guerra. Ma i ricordi della guerra d’Etiopia vissuti da combattente, erano sempre lì che martellavano la sua mente. Prima o poi avrebbe dovuto narrarli. Al momento giusto.
    Se dio vuole, dopo anni terribili, anche la seconda guerra mondiale terminò.

    Nonostante che il suo lavoro da muratore non consentisse loro una vita agiata, Vincenzo comprava tutte le settimane “L’Unità“. Era l’unico in tutta la zona a leggere con continuità un giornale. Lo comprava perché rispecchiava le sue idee e anche perché pubblicava anche romanzi d’appendice.
    Una sera a tavola decisa che era ora di raccontare a moglie e figli le esperienze della sua vita, soprattutto quelle vissute durante la guerra.
    Voleva che conoscessero cos’è la guerra e come la bramosia del potere possa causare disastri.
    Vincenzo prese a raccontare: “La campagna d’Etiopia, cui partecipai, fu un inferno. Il caldo era atroce. Mancava quasi tutto.  I rifornimenti, soprattutto il cibo, non arrivavano mai con continuità. Ma ciò che pativamo di più era la sete. L’acqua doveva arrivare dall’Italia: in Etiopia scarseggiava.
    Una sera, non appena calò il buio, decidemmo di andare a cercare dell’acqua nella zona circostante l’accampamento. Nonostante il buio profondo riuscimmo a trovare una pozza d’acqua. Ci abbeverammo abbondantemente e ci addormentammo sul posto.
    All’alba, quando la luce permise ai nostri occhi di vedere, con raccapriccio ci accorgemmo che nell’acqua c’era una capra morta.
    Nonostante fossimo una forza soverchiante rispetto alle forze abissine, i  nostri comandanti non si facevano scrupolo di ordinare di usare armi come i lanciafiamme. Vedevamo i corpi dei soldati del Negus che bruciavano e si contorcevano tra dolori atroci. E loro, gli ufficiali, ridevano: noi eravamo impietriti.
    Il nostro cibo era costituito per la maggior parte da scatolette, spesso anche avariate.”

    “Una volta, era il giorno di Pasqua, pensammo: oggi, speriamo, forse ci sarà un rancio speciale. Il nostro sogno qual era? Una pastasciutta. E invece ci toccò una scatoletta di carne con dentro dei…vermi.
    Per gli ufficiali c’era stato un pranzo con i fiocchi. Avevano bevuto anche un bicchierino di liquore.
    Noi soldati arrabbiati uscimmo dalle tende urlando sarcastici,  per protesta: -Abbasso il re, abbasso il duce!-
    Volevano fucilarci. Per intervento del comandante dell’accampamento la cosa finì lì. Non ci furono punizioni. E che dire delle marce, erano estenuanti sotto un sole arroventato: un tormento continuo. Tutto questo per poter far dire al duce: l’Italia ha finalmente l’impero.
    Ritornammo in condizioni pietose. Ci volle molto tempo per riprenderci.”

    Dopo aver raccontato si sentì meglio, in pace con se stesso: si era tolto un peso enorme dal cuore.
    Per un po’ di anni la vita scorse tranquilla. La sua era una famiglia modesta ma dignitosa, in casa regnava l’armonia. Vincenzo non era un semplice muratore ma uno scagliolista. Col gesso creava lavori artistici. Queste sue abilità garantivano un buon lavoro.
    Ad un certo punto capitò qualcosa. La guerra tornò subdola a farsi viva, con qualcosa di peggio che un semplice ricordo.

    Verso la metà degli Anni Cinquanta cominciò ad accusare del malessere: era stanco, faceva fatica sul lavoro. Comparvero anche febbri e altri sintomi cui all’inizio non diede peso.
    Il suo medico non riusciva a spiegarsi la natura di quei malesseri. Lentamente le condizioni di salute peggiorarono. Fu costretto ad assentarsi dal lavoro sempre più frequentemente.
    Le condizioni economiche della famiglia crollarono. Comunque era circondato dall’amore della moglie, da quello dei figli e la vita così un po’ di gioia continuava a dargliela. Vincenzo però si tormentava perché non poteva più garantire un sia pur modesto benessere. Non si rendeva conto però di aver già regalato loro qualcosa di  più prezioso: un’educazione civile, aver insegnato a rispettare tutte le persone a prescindere dalla loro natura.

    Questo in un periodo storico in cui la vita era veramente dura, come nel dopoguerra. Spesso la disperazione di molte persone, causata dalla diffusa miseria, si tramutava in una violenza familiare. Vincenzo non si permise mai di dare un sia pur lieve ceffone.
    Un vero modello educativo condiviso anche dalla moglie Giuseppina.Il peggioramento delle condizioni di salute resero necessario il ricovero all’ospedale  Cardarelli, il più grande del Sud.
    Giuseppina andava tutti i giorni da Vincenzo, con grandi sacrifici. Anche economici.
    Un giorno, arrivando in ospedale, al capezzale di suo marito trovò il primario. La chiamò da parte  e le chiese: – Mi dica, signora, per caso suo marito ha fatto la guerra d’Etiopia? –

    – Sì, certo -, rispose.

    – Vede signora – disse il medico -, la diagnosi di suo marito è tremenda, di quelle che non lasciano scampo: leucemia… Noi abbiamo avuto in cura molti uomini dell’età di suo marito e tutti affetti dalla stessa malattia e tutti avevano fatto la guerra d’Etiopia. Le condizioni di vita, l’assenza di cibo sano e le condizioni igieniche hanno condannato a morte prematuramente molti giovani uomini pieni di vita. Un bel regalo del fascismo.
    Nel 1965 Vincenzo, distrutto dalla malattia, morì. Circondato da tutta la famiglia che gli fece vivere serenamente gli ultimi istanti di vita. Lasciò una moglie e dei figli disperati e in miseria.

    Si concluse così un altro olocausto alla vanagloria ed alla sete di potere e bramosia, non solo del fascismo, ma di tutti coloro che credono di essere onnipotenti.

    Ci può essere, in storie come queste, un monito per l’oggi?

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