Lungo la Stura di Lanzo esistono ancora numerose dimore rurali realizzate tra il Sei-Settecento certamente meritevoli di conservazione, e alcune di esse, pur essendo pressoché sconosciute se non dagli addetti ai lavori, possono essere considerate dei piccoli gioielli architettonici che ben poco hanno da invidiare alle certo più sfarzose dimore sabaude.
Raramente l’architettura rurale viene considerata meritevole d’attenzione, eppure questi edifici costituiscono un vasto patrimonio storico, culturale, sociale ed ambientale, le cui origini e trasformazioni si intrecciano alle vicende economiche della campagna e dell’ambiente naturale, rappresentando la testimonianza più eloquente dello sfruttamento agricolo del territorio nei secoli passati.
Purtroppo oggi questi fabbricati sono soggetti a un deterioramento di intensità crescente e ad alterazioni che sono destinate a privare il territorio di uno degli elementi peculiari, inseritovi dalla secolare opera dell’uomo per la propria evoluzione.
L’obiettivo di salvare e recuperare questo patrimonio edilizio “povero”, almeno per quanto riguarda gli esempi più rappresentativi, dovrebbe rientrare quindi in ogni piano urbanistico che si rispetti, piani che spesso dimenticano questi fabbricati disseminati nella campagna, considerando gli edifici all’interno dei centri storici come gli unici degni di salvaguardia.
Uno degli esempi più eloquenti è sicuramente la Cascina Nuova del Comune di San Maurizio Canavese, posta di fronte alla frazione Malanghero ai margini della pista aeroportuale, poco distante dal confine con Caselle.
LA CASCINA NUOVA DI SAN MAURIZIO
Percorrendo la strada che arriva dalla Frazione Malanghero, appare in lontananza, al di là della pista di atterraggio dell’aeroporto di Torino-Caselle, l’elegante facciata neoclassica della Cascina Nuova.
L’antico e splendido civile che si presenta oggi ai nostri occhi in uno stato di desolante abbandono, coi tetti crollati e le strutture pericolanti, è stato negli anni preda di incursioni che l’hanno spogliato di tutto il recuperabile, compresi i davanzali delle finestre in pietra lavorata.
Immagine malinconica dei fasti passati che contrasta con i super tecnologici aerei moderni che, appena atterrati, passano a poche decine di metri dalla facciata, dove un tempo esisteva lo splendido giardino, contribuendo con le loro vibrazioni, giorno dopo giorno, alla rovina del fabbricato.
LE ORIGINI
Le origini di questa Villa sono da ricercarsi all’inizio del ‘700, periodo in cui sono sorte la maggior parte delle ville costruite dai neo-ricchi uomini d’affari i quali, acquisito il titolo nobiliare dalla monarchia sabauda quale riconoscimento della potenza finanziaria raggiunta, necessitavano di rendere visibile il prestigio raggiunto con segni esteriori che portarono in quel periodo a numerosi interventi edilizi sia in Torino che nella campagna circostante.
Così è probabile che, quando il banchiere Giovanni Antonio Durando, figlio del liquorista Giuseppe, venne investito a Conte di Villa del Bosco (Biella) il 18 aprile 1757, la prestigiosa Cascina Nuova, da poco ultimata, diventò la residenza della famiglia, in sostituzione della vicina Cascina Vecchia posta vicino alla frazione Malanghero, già di loro proprietà fin dalla seconda metà del secolo precedente (i nomi derivano sicuramente dalla necessità di distinguerle tra loro).
Non è chiaro per ora se alla fine del ‘600 nella regione denominata “Nosea”, dove poi sorse la Cascina Nuova, ci fosse già un nucleo edificato, ma è curioso notare che la cascina sorse in corrispondenza dell’incrocio di due assi dell’antica centuriazione romana.
L’intero edificio è comunque frutto di successivi interventi architettonici dovuti alle mutate esigenze sia produttive che abitative, come testimoniano i diversi caratteri stilistici.
Sicuramente allora esisteva già una cappella, che presenta ancor oggi su un muro laterale le tracce di una meridiana con una data semi-cancellata, ma compresa tra il 1650 ed il 1690.
La cappella si presenta con la facciata rivolta verso sud, e sui due muri laterali, ad est e ad ovest, sono ancora presenti le tracce di due meridiane che però risultano inglobati all’interno del fabbricato a seguito della costruzione della cascina settecentesca.
Questo conferma la preesistenza isolata della cappella che era sicuramente anche più corta, come testimoniato dalla presenza nei muri laterali di due diverse tipologie costruttive con un netto taglio murario.
La Cascina Nuova è ben documentata nella sua prima fase costruttiva da un pregevole “Cabreo de beni spettanti all’Ill.mo Conte Durando di Villa posta sopra li fini di St.Moritio”, non datato, ma evidentemente posteriore al 1757, dopo l’investitura comitale.
In questo cabreo (così era detto l’inventario figurato dei beni di proprietà) la cascina risultava organizzata su un unico ampio cortile chiuso sui quattro lati, con le maniche sud ed ovest destinate a tettoie, e la manica nord che ospitava la residenza dei contadini a ovest per continuare con una lunga stalla con soprastante fienile e terminare ad est con la elegante residenza dei proprietari.
Di questa manica, oggi ancora esistente anche se in parte inglobata negli interventi successivi, è molto interessante e pregevole la facciata verso il cortile della parte rustica, tutta in mattoni a vista, con un ampio avancorpo centrale segnato da tre arcate che corrispondevano all’antica scuderia che a sua volta divideva alla sinistra la stalla per i bovini, ed a destra un grande “citroniera” collegata con la dimora padronale.
La citroniera era un elemento caratteristico delle ville settecentesche più prestigiose, ed era praticamente una serra destinata al ricovero a difesa dai geli, delle piante di agrumi (e non solo) che in estate ornavano ulteriormente il giardino; famosa vicino a noi è la Citroniera Juvarriana della Reggia di Venaria.
LA CAPPELLA
La villa padronale era collegata alla cappella gentilizia, posta la termine della manica sud, da un arioso ed elegante colonnato che da un lato guardava la corte, e dall’altra si affacciava sul maestoso giardino di levante.
La cappella, dedicata all’Immacolata Concezione della B.M.V., nel cabreo risulta già con le attuali dimensioni, ma era ancora completamente libera verso levante, e la facciata era caratterizzata da un timpano sopra il finestrone, con un campanile posto all’estremità nord occidentale.
Alcuni particolari del disegno fanno anche presupporre che in quel periodo la cappella non avesse ancora le attuali decorazioni che vennero realizzate probabilmente tra il 1757 ed il 1771 quando l’edificio subì un ulteriore ed importante rinnovamento, forse ad opera del Conte Felice Niccolò, figlio di Giovanni, uomo di grande cultura.
La cappella venne interamente affrescata, da ignoti artisti, con decorazioni quadraturiste, ispirate alle soluzioni costruttive di Bernardo Vittone, che, con perfette illusioni architettoniche, ingannano l’osservatore dando l’idea della reale presenza degli stucchi, delle lunette laterali e della lanterna al centro della volta a vela sopra l’altare, il tutto ampliando virtualmente lo spazio reale.
L’ornato proseguiva sulle pareti laterali incorniciando sei quadri ad olio, di scuola bolognese, raffiguranti scene di vita della Vergine, caratterizzate dalla rappresentazione scenografica di grandi architetture in cui si ambientano le piccole figure dei protagonisti.
L’altare, in pregiati marmi policromi, era sovrastato da un baldacchino ligneo che proteggeva una grande tela rappresentante l’Immacolata con altri Santi.
L’arredamento della cappella era completato da due lampadari in cristallo di Boemia, candelieri dorati, vari reliquiari e soprattutto un magnifico confessionale di gusto rococò come testimoniato da alcune fotografie eseguite negli Anni Cinquanta, quando la villa era ancora abitata, prima della cessione all’Aeroporto di Caselle.
Oggi la cappella non è accessibile e alcune foto degli Anni Settanta testimoniano quanto ben poco restava di questa cappella, a parte le pregevoli pareti affrescate, cappella che nel decreto di tutela emanato il 30 giugno 1949 dal Ministero della Pubblica Istruzione veniva definita “una delle più belle fra quelle private del Settecento Piemontese”.
DURANDO Felice Niccolò, conte di Villa
Nacque a Torino il 6 dicembre 1729 in una famiglia oriunda di Candelo, da Giovanni Antonio, banchiere torinese.
La sua istruzione venne affidata a G. Tagliazucchi, il dotto modenese che dal 1729 svolse una vasta ed illuminata attività didattica in Piemonte, formando tutta una generazione di intellettuali, tra i quali lo stesso Durando che venne considerato l’allievo migliore nelle lettere classiche.
Nel 1751 si laureò in ambo le leggi a Torino e dopo il 1773 venne nominato consigliere del re di Sardegna, inizialmente nel consiglio del Commercio e poi in quello delle Finanze. Sposatosi nel 1758 con Teresa Valperga dei conti di Rivara, ebbe un unico figlio, Antonio Maria, anch’egli letterato.
Come scrive G. Fagioli Vercellone, nel Dizionario Biografico degli Italiani, “la fama di Niccolò presso i contemporanei era legata, più che dalla produzione letteraria, dall’instancabile e qualificata attività culturale ed al mecenatismo generoso nel quale profuse le pingui sostanze, specialmente con doni di libri. Veniva considerato un arbitro infallibile nelle dispute erudite: G. M. Lampredi, che lo conobbe a Torino nel 1789, lo definì “il più colto e gentile Cavaliere del paese, incline al partito dei Novatori, di somma autorità, il modello del gusto che tutta la nobile gioventù consulta” (M. Battistini, p. 570). La sua villa di San Maurizio Canavese, presso Torino, fu un centro di riunione e di lavoro per i letterati (G. G. Loya vi scrisse molte delle sue opere), mentre la sua casa di città era un punto di riferimento a livello europeo per i viaggiatori colti: “non passava in Torino un letterato forestiero a cui non fosse cortese di mensa e di altri uffici di gentilezza” (Novelle letterarie, 1791, col. 553), principalmente aprendo loro la sua biblioteca”.
Questa biblioteca era famosa fra i contemporanei, anche fuori dal Piemonte, addirittura considerata come “la più scelta e più copiosa libreria che fosse in mano di privato in Italia” (C. Calcaterra, 1935, p. 449).
Sicuramente la biblioteca, con quasi 28.000 volumi, era una delle più ricche e curate, grazie anche all’organizzazione del dotto abate L. Lazzarini, che ne fu il bibliotecario; ad essa il Conte Durando destinava ogni anno una quota delle sue rendite, per arricchirla continuamente.
Niccolò, uomo di lettere e critico ferratissimo, fu membro dell’Accademia della Crusca, di quella di Fossano, e degli Unanimi, nonché uno dei dieci accademici d’onore di nomina regia dell’Accademia di pittura e scultura.
Morì nella sua villa di San Maurizio Canavese il 7 luglio 1791.
Il suo unico figlio premorì senza discendenza, e Niccolò, affranto dal dolore, non si curò di rifare il testamento, così alla sua morte non avendo altri eredi prossimi la sua eredità passò, dopo molte ricerche, ad un lontano e sconosciuto parente.
L’erede risultò un tale Giovan Battista Favre, mendicante ottuagenario, il quale volle assolutamente vendere all’incanto la famosa biblioteca, disperdendo così anche tutte le opere manoscritte del Durando, tra cui una monumentale “Storia dei letterati piemontesi”, che aveva quasi portato a compimento, per la quale l’abate Lazzarini raccoglieva da anni i materiali.
LA VILLA NEOCLASSICA
Negli ultimi anni del ‘700 la villa subì un ultimo importante intervento edilizio, con la costruzione dell’ala di levante per ampliare la villa padronale, inglobando al suo interno la galleria di comunicazione tra l’abitazione e la cappella.
Mancano precisi documenti attestanti la data di costruzione, però un documento sulla morte del Conte Felice Niccolò avvenuta nel 1791, attesta che avvenne in conseguenza di una “caduta fatta due giorni prima nella sua villeggiatura di Malanghero per essere rovinata sotto i suoi piedi una scala costrutta di fresco“, può dare un’indicazione sull’epoca di costruzione.
Con questo ampliamento la villa assume un nuovo e imponente aspetto dalle caratteristiche neoclassiche quasi Palladiane, che ancora oggi si possono vedere dal Malanghero.
La facciata principale diventò quella che si affacciava sul maestoso giardino, ed è ancora oggi caratterizzata da un avancorpo centrale a due piani sovrastato da un timpano triangolare, il tutto racchiuso tra due torri quadrate simmetriche.
La cappella venne praticamente inglobata e sopraelevata nel complesso del nuovo fabbricato, tanto che le finestre laterali, che prima erano esterne, diventano interne, permettendo ai proprietari di affacciarsi e assistere alle funzioni senza più uscire di casa.
Come detto con la morte senza eredi del Conte Felice Niccolò, la proprietà passò prima al savoiardo Giovanni Battista Favre, poi a suo nipote Gaspare Martin, ai Marchesi di Villamarina e poi ad altri, finché pervenne il 16 maggio 1866 al Comm. Avv. Luigi Arcozzi Masino, decorato per i moti rivoluzionari del ’48, e benemerito agronomo e direttore di varie scuole, tra le quali la Bonafus ed il Liceo Musicale.
Nella Cascina Nuova il nuovo proprietario impiantò tecniche innovative di allevamento, coltivazione e tenuta dei suoli, tanto da portare l’azienda all’attenzione degli esperti, grazie anche alle numerose pubblicazioni date alle stampe dallo stesso Arcozzi.
Durante la seconda guerra mondiale gli Arcozzi-Masino ospitarono per oltre due anni nella loro villa più di quaranta sfollati, tra adulti e bambini, persone anche a loro sconosciute, che nella situazione drammatica della guerra avevano chiesto un momentaneo ricovero.
Tra essi nell’agosto del 1943 venne ospitato anche Giovanni Haussmann, famoso agronomo russo naturalizzato italiano, che l’ingegnere Arcozzi-Masino aveva conosciuto in quanto agricoltore e desideroso di fare diventare la sua una azienda modello rendendosi sempre disponibile ad accogliere prove orientative o dimostrative promosse dall’Ispettorato agrario o dalle Stazioni sperimentali torinesi.
La famiglia Arcozzi Masino rimase proprietaria della cascina fino al 26 ottobre 1959, quando i fratelli Ing. Luigi e Mons. Vincenzo la cedettero, in perfette condizioni, al Comune di Torino per l’ampliamento dell’aeroporto.
La villa, spogliata di tutto, venne adibita a magazzino ed il parco, con i suoi stupendi alberi secolari di pregiate essenze, raso al suolo per non ostacolare i decolli degli aerei.
In seguito lo stesso parco venne utilizzato per il prolungamento della pista di raccordo e, dopo i tragici avvenimenti dell’attentato alle Torri Gemelle, tutte le aperture prospicienti la pista vennero murate nel nome della sicurezza aeroportuale, aggravando ulteriormente la situazione di degrado del fabbricato che oggi, ancora di proprietà del Comune di Torino, è desolante, con i suoi tetti semicrollati, minaccianti sempre più rovina.
È un peccato che l’Aeroporto ed il Comune di Torino non sia mai riuscito a trovare un utilizzo più consono a questa villa, permettendo la conservazione di questo monumento che è senz’altro uno dei più pregevoli della zona.
E pensare che, come un biglietto da visita, questa immagine è proprio la prima che vedono ogni anno i quattro milioni di passeggeri, tra cui molti stranieri, che ogni anno transitano dalla modernissima aerostazione di Torino-Caselle.