Quel giorno, quel tempo

Dedicato al "Diez, el mas grande"

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NAPLES, ITALY - MAY 05: Diego Armando Maradona, during a Serie A match between Napoli, S.S.C and Juventus Football Club at Stadio San Paolo on May 5, 1985 in Naples, Italy. (Photo by Stefano Montesi - Corbis/Corbis via Getty Images)

È il 9 Novembre 1986. A Torino è in programma la partita di campionato: Juventus-Napoli.
Come in altre circostanze simili dal paese, Casola di Napoli, arrivano molti parenti e compaesani. È l’occasione per una rimpatriata. Si mangia, si chiacchiera, si fa baldoria. Si preparano le bandiere da portare allo stadio. Un rito che si ripete tutti gli anni, ma solo con Madama. Con il Toro no. Sono sfigati come noi.
Di norma, negli anni precedenti, l’entusiasmo prima della partita era alle stelle, poi allo stadio regolarmente le buscavamo. Dicevamo:” Quest’anno è diverso, abbiamo Maradona. Il più forte.”
Maradona, un genio assoluto del calcio. Tutto talento e sregolatezze come tanti altri geni estremi. Per certi versi fa il paio con un altro genio della storia: Caravaggio. Un artista capace di raggiungere vette per gli altri nemmeno pensabili, ma anche bassezze fatte di violenza e bagordi.
Ha ragione Saviano quando scrive:”..Impossibile raccontare cosa è stato Maradona… trascendeva il calcio…schiacciato da una vita in cui era assediato, dove tutti chiedevano cose, cose, cose…la camorra ne comprende le debolezze…gli fornisce la coca, escort.”
Era, inoltre, un uomo capace di gesti altruistici come quanto disobbedì alla società per partecipare a una partita di beneficenza, o quando decise di non procedere contro i falsari di magliette perché così si procuravano il pane. Esempi del genere sono molti.
Ma torniamo a quel giorno, al 9 novembre dell’86. Ci avviamo pieni di entusiasmo verso il Comunale. C’è una domanda: perchè questa rivalità viscerale con la Juve? Questa squadra, non da sola, incarna in chiave moderna il “panem et circens” di ascendenza romana. Durante la settimana in fabbrica a sgobbare e la domenica vai a guardare questa scintillante e magnifica squadra. Un valore consolatorio. Ecco dove nasce il brutto slogan “l’unica cosa che conta è vincere.”
Arriviamo allo stadio. La curva Maratona strabocca di tifosi, come in parte nei distinti e nelle tribune.
La partita inizia. Il primo tempo fila liscio. Abbastanza equilibrato.
All’inizio del secondo tempo Laudrup porta in vantaggio la Juve .
Ecco, pensiamo, ci siamo. I sogni sono finiti. Forse per noi. Non per Maradona, il quale dimostra che significa essere leader, batte le mani come per dire: ”Non è successo niente, cominciamo a giocare”. Non c’è più stata partita.
La Juve chiusa nella sua metà campo. Al 73′ Moreno Ferrario pareggia. È un putiferio. Al 74′ calcio d’angolo di Diego, Renica prolunga la palla e Giordano, appostato sul secondo palo insacca: siamo in vantaggio. La curva diventa una bolgia. Il mio amico Ciruzzo, davanti a me, sviene per l’emozione. Al 90′ Giuseppe Volpecina al termine di un contropiede segna il terzo gol.
La partita è finita. C’è gente che piange. Erano molti anni che aspettavamo questo giorno.
Qualcuno dirà: “Tutto questo per una partita? Il calcio è solo uno sport”. Apparentemente. Nel bene e nel male nel calcio ci sono molte cose: identità, appartenenza, cultura, antropologia. Sull’argomento c’è una sterminata bibliografia.
Torniamo a casa esausti. Inizia la cavalcata verso lo scudetto. Per la prima volta una squadra del Sud, del martoriato e bistrattato Sud, vince qualcosa: nessuna squadra aveva mai vinto niente.
Maradona ci ha dato queste soddisfazioni perché in fondo è come noi, con tutti gli eccessi.
Solo un evento sportivo quel giorno, quel tempo?

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