Alla fine, il Niger ha escluso anche gli Americani dal proprio territorio, con un buon appoggio collettivo.
Fra luglio e agosto dell’estate passata, il colpo di stato a danno del presidente Mohamed Bazoum aveva portato alla cacciata dei francesi, sia militari che diplomatici, ma era soltanto l’ultimo – in senso cronologico, primo per importanza nell’interesse italiano – dopo quelli susseguitisi in Mali, nel 2021, e in Burkina Faso, nel 2022.
Gli Stati Uniti hanno lasciato il Niger dopo che nel marzo scorso il portavoce militare di Niamey, Colonnello Amadou Abdramane, aveva ordinato il ritiro immediato degli Americani a causa della mancata osservanza dell’accordo firmato nel 2012 fra i due stati: «Il Niger si rammarica dell’intenzione della delegazione americana di negare al popolo sovrano nigerino il diritto di scegliere i propri partner e le forme di partenariato in grado di aiutarlo veramente nella lotta contro il terrorismo».
Abdramane si riferisce ai dubbi di Washington – manifestati in occasione dell’incontro nella capitale saheliana fra il sottosegretario di Stato per gli affari africani Molly Phee e il capo dello Us Africa Command, Generale Michael Langley, con le autorità locali all’inizio di marzo – a proposito della volontà di Niamey di affidarsi a Mosca e alla Wagner (oggi Africa Corps, ndr.) per il duro combattimento contro le milizie islamiste che infestano il Paese e la più diffusa regione del Liptako-Gourma.
Ciò che preoccupa forse maggiormente l’America, e dovrebbe anche l’Italia, è l’almeno ipotetica intesa di Niamey con l’Iran sull’approvvigionamento d’uranio, indispensabile al programma nucleare dei mediorientali.
Il primo ministro Ali Mahamane Lamine Zeine ha visitato Teheran nel gennaio scorso incontrando il presidente Ebrahim Raisi. «Il Niger è il settimo produttore mondiale di uranio», riporta Al Jazira.
Dal 2018 l’Italia è in Niger con la missione addestrativa Misin (Missione bilaterale di supporto nella Repubblica del Niger), ed è ultima presenza “occidentale”, come ricordato anche da Crosetto .
Lo scopo iniziale della missione, fino ad oggi, è stato quello di «incrementare le capacità volte al contrasto del fenomeno dei traffici illegali e delle minacce alla sicurezza, nell’ambito di uno sforzo congiunto europeo e statunitense per la stabilizzazione dell’area e il rafforzamento delle capacità di controllo del territorio da parte delle autorità nigerine e dei Paesi del G5 Sahel» afferma il nostro Ministero della Difesa, con attività d’addestramento delle forze di sicurezza, l’insegnamento aeronautico e il controllo delle frontiere. Essa conta nelle disponibilità italiane 350 effettivi e un centinaio di mezzi, aerei e terrestri.
Con l’espulsione di Washington, però, l’Italia è di fronte a un crocevia, sia storico che politico-militare: non abbandonarsi al timore d’esser sola e senza “sorelle maggiori”, in una
pericolosa relazione bilaterale; condurre un’attività decisiva contro i centri nevralgici del traffico d’esseri umani e quelli del jihadismo, in crescita ulteriore a causa della ritirata “occidentale”, come segnalano e lamentano anche i servizi segreti spagnoli.
Siamo su una posizione geostrategica decisiva, sullo scoglio desertico, crocevia d’ogni traffico illegale e ogni interferenza sia a latere o direttamente: logora la nostra società e quella degli stati euromediterranei. Per i nostri interessi di sicurezza e per tentare di negoziare con un peso maggiore all’interno dei fora dell’emisfero politico euroatlantico. Una sorta di «neoatlantismo» inatteso da perseguire in tutte le maniere.
«Noi valutiamo la guerra libica una minaccia per il nostro paese e per la regione che si prolungherà negli anni a venire […] Avevamo detto all’Occidente di non perdere di vista la realtà e di tenere conto della società libica. […] ma non siamo stati ascoltati anche se l’Italia ci è sembrata più sensibile a questa proposta. Incontrai in giugno 2011 il ministro degli esteri, Franco Frattini, e gli dissi che voi italiani, che conoscete bene la situazione libica, dovevate giocare un ruolo più deciso, più positivo, evitando di seguire la corrente». Così s’espresse nel 2011 il Presidente deposto del Niger e ora, ancora una volta, si presenta per l’Italia un’occasione d’oro da non sciupare, come troppo spesso è accaduto.
Crocevia Niger, occasione italiana
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