In questi giorni cade un compleanno che non avremmo mai voluto festeggiare. Esattamente un anno fa iniziava il “lockdown” per tentare di isolare un virus chiamato Covid 19, di provenienza cinese, ci dissero, di origine animale, insediato nell’uomo e a oggi non ne è uscito. Mesi di isolamento, solitudine casalinga, canti dai balconi, vietato ogni spostamento e ricongiungimento familiare, DPCM periodici ad annunciare numeri di contagi, guarigioni, e purtroppo morti, tanti, troppi.
Schiere di virologi, più o meno titolati, in gara per apparire ancor prima che informare, e intanto i mesi passavano, oltre alla pandemia sanitaria si veniva delineando una inevitabile pandemia socio-economica. Anche qui dibattiti con politici, economisti, giornalisti. Prospettive di soluzioni, ripresa, riconversioni, Pil in picchiata. Noi a casa, a parte la breve pausa estiva del “liberi tutti” che ci ha riportati come lo scivolo del luna park dritti nella seconda fase autunnale di contagio, sembrava più leggera ma soprattutto ci dicevano, si sapeva come affrontarla. Ecco Natale con le feste comandate: botti vietati, si disse; anche no, si rispose. Furono fatti, in barba ai divieti, alla stretta economica: non si arriva a fine mese dicono in molti, però a certe abitudini non si rinuncia.
A gennaio lieve schiarita, tanto che si parlava di riaprire la stagione sciistica.
Il capitolo scuole è uno dei più controversi, la didattica a distanza si è rivelata un palliativo, ma con lacune e incertezze, dubbi e scossoni.
Ad oggi dopo un anno chi chiediamo come e se la nostra vita potrà cambiare, almeno in parte, siamo consapevoli che non sarà più come prima, qui scatta un insieme di sentimenti, un misto di rabbia, rimpianti, delusione. Poteva andare diversamente? Doveva. Poteva essere gestita diversamente? Doveva. Potevamo, tutti ma proprio tutti, fare qualcosa di diverso (meglio)? Dovevamo. Dobbiamo oggi fare qualcosa di diverso? Dobbiamo.
Invece ogni giorno vediamo immagini che dimostrano insofferenza palesata con ostentazione soprattutto nei grandi centri: strade e negozi affollati, l’aperitivo della sera anticipato, perché senza l’aperitivo non si può, il pranzo al ristorante diventa irrinunciabile, il caffè da asporto. Intendiamoci, queste sono cose che sono mancate a tutti o quasi, sono i piaceri quotidiani che mai avremmo pensato di cancellare. Eppure, col senno di poi, forse era il caso di rinunciare a qualcosa, a cominciare dal pienone delle spiagge dell’estate, ai viaggi “in sicurezza” quando sicurezza era quanto di più effimero in quel momento.
Gli ospedali non si sono mai svuotati dei malati Covid e purtroppo i malati di molte altre patologie sono rimasti indietro, protocolli di cura sospesi, cure interrotte per il timore di entrare negli ospedali.
Andar per ospedali da un anno a questa parte è doppiamente sgradevole, il clima è pesante, il distacco dalle famiglie è totale, si lascia tutto e si indossa un camice al momento dell’ingresso, si rivedono i famigliari al momento delle dimissioni, quando le cose vanno bene, altrimenti si riceve indietro una borsa.
Nascere in tempi di Covid è svilire l’unico motivo di gioia che ci può essere in un ospedale, ai papà è permesso una fugace presenza alla nascita, stringeranno il loro bambino a fine degenza, alle mamme la totale solitudine.
Oggi siamo sprofondati nel girone infernale più basso, colpa delle varianti, pare, o un po’ di tutti?
Acquisti di mascherine farlocche dopo una iniziale carenza, oggi sappiamo quanto sarebbero servite.
Il vaccino ci salverà? Quando ci sarà, quando ci toccherà?
Il ridondante Vax-day è finito nelle sabbie mobili, le primule non vedranno la primavera, ma non permettiamo alla speranza e al buon senso di abbandonarci.