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sabato, Luglio 27, 2024

    A chi appartiene l’Amazzonia?


    Se fossimo seduti a bordo di un aereo, e stessimo sorvolando quell’immenso polmone verde, neanche con tutto l’impegno possibile riusciremmo a individuare i confini che qualche assurdo accordo fra esseri umani ha determinato. Se avessimo già fatto altri passaggi in quota, forse riusciremo piuttosto a vedere che negli ultimi anni la foresta è sostanzialmente “dimagrita”. È da tempo che l’Amazzonia è sotto attacco. A opera di tutti i Paesi amazzonici, ma soprattutto del Brasile, che ne ospita oltre il 60 per cento. Qui la situazione è precipitata con l’arrivo al potere del capitano Jair Bolsonaro. Questo militare di piccolo cabotaggio, ammiratore della dittatura, non ha mai nascosto il proprio pensiero fondato sul populismo neoliberista. Nel suo discorso del 24 settembre 2019, davanti all’Assemblea delle Nazioni Unite, aveva affermato il suo impegno per la difesa dell’ambiente, aggiungendo che l’Amazzonia sarebbe stata praticamente intoccata. Ma, poi aveva aggiunto: «L’Amazzonia è nostra, non dell’umanità». La filosofia del governo Bolsonaro è chiara. La difesa dell’Amazzonia e dei suoi abitanti originari è considerata un intralcio allo sviluppo economico e all’arricchimento individuale. Pertanto, secondo quel Governo: 1) ogni legge ambientale va superata e ogni difensore reso impotente con qualsiasi mezzo; 2) I popoli indigeni vanno scacciati dalle loro terre o eliminati (culturalmente e fisicamente) perché costituiti da esseri inferiori, incapaci di comprendere i principi economici che regolano la società bianca. Le invasioni dei minatori illegali sono terribilmente nefaste: una volta ottenuto il prodotto (soprattutto oro), lasciano la zona devastata per passare a un’altra. Le immagini dei territori amazzonici dopo il passaggio dei garimpeiros sono più impressionanti di una foresta abbattuta o bruciata, di un pascolo occupato da migliaia di vacche. Sono cicatrici nella foresta. L’oro è il secondo prodotto più esportato dal Roraima dopo la soia. L’attività mineraria, non è più quella dell’uomo solitario che cerca l’oro con strumenti artigianali. Oggi è diventata un’attività d’impresa con investimenti importanti in macchinari, materiali e logistica e l’utilizzo di aerei e elicotteri. Inoltre, la vicinanza forzata con i garimpeiros ha prodotto tra gli indigeni un’esplosione di casi di malaria (le aree disboscate facilitano la diffusione delle zanzare), oltre che di avvelenamento dal mercurio utilizzato dai minatori. Oltre ai minatori, purtroppo, si effettua la deforestazione di vaste aree per la coltivazione della soia, per l’allevamento del bestiame. La soia, la carne, i minerali e altre materie prime prodotte su larga scala in Brasile sbarcano in Europa, Sud America, Cina, Stati Uniti e altri mercati globali. Queste merci lasciano una robusta traccia di abusi dei diritti umani e di devastazione ambientale, minacciando il futuro della più grande foresta tropicale del mondo e dei suoi popoli e, conseguentemente il futuro del clima mondiale. La resistenza messa in atto dai popoli indigeni non è sufficiente a fermare un’invasione e una distruzione che coinvolgono attori che hanno potere sulle autorità locali. Per fare effettivi passi avanti, occorrerebbe un coinvolgimento maggiore dei non indigeni di tutta l’America e anche, delle popolazioni europee. Purtroppo, pur in presenza di innumerevoli denunce scientifiche, giornalistiche e persino papali, molti obiettano che così va il mondo e che non si può fare nulla per cambiare la situazione dell’Amazzonia. Che non sia facile è certamente vero, ma è altrettanto vero che non è impossibile se si assumono comportamenti da consumatori informati e responsabili. Ad esempio, rifiutando di acquistare prodotti legati allo sfruttamento dell’Amazzonia e dei suoi popoli. La devastazione della più grande foresta pluviale del pianeta, con le sue gravi implicazioni per la stabilità climatica, non può essere intesa semplicemente come una questione brasiliana. L’Amazzonia non dovrebbe essere terra alla mercé di ignobili speculatori, né tantomeno a esclusivo servizio di governi senza scrupoli, gestiti da personaggi indegni. Se l’Amazzonia è “patrimonio dell’umanità”, il problema è mondiale. Nel 1945 è stato costituito un ente chiamato O.N.U.: chi altri dovrebbe occuparsi dei problemi su scala globale? Oltre allo scopo di mantenere la pace e la sicurezza internazionale, si sono aggiunti nel tempo altri obiettivi, quali la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali, la promozione della crescita economica, sociale, culturale e della salute pubblica internazionale. Proprio su quest’ultimo punto si renderebbe assolutamente indispensabile un’azione, non solo di rallentamento, ma di proibizione assoluta di proseguire sulla strada intrapresa.

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    Ernesto Scalco
    Ernesto Scalco
    Sono nato a Caselle Torinese, il 14/08/1945. Sposato con Ida Brachet, 2 figli, 2 nipoti. Titolo di studio: Perito industriale, conseguito pr. Ist. A. Avogadro di Torino Come attività lavorativa principale per 36 anni ho svolto Analisi del processo industriale, in diverse aziende elettro- meccaniche. Dal 1980, responsabile del suddetto servizio in aziende diverse. Dal '98 pensionato. Interessi: ambiente, pace e solidarietà, diritti umani Volontariato: Dal 1990, attivista in Amnesty International; dal 2017 responsabile del gruppo locale A.I. per Ciriè e Comuni To. nord. Dal 1993, propone a "Cose nostre" la pubblicazione di articoli su temi di carattere ambientale, sociale, culturale. Dal 1997 al 2013, organizzatore e gestore dell'accoglienza temporanea di altrettanti gruppi di bimbi di "Chernobyl". Dal 2001 attivista in Emergency, sezione di Torino, membro del gruppo che si reca, su richiesta, nelle scuole.

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