La storia, quella dei lavandai mappanesi, che trae origini in una parte delle prime comunità che si affacciavano in riva al Po, tra fine Ottocento ed inizi Novecento, e successivamente nell’area conosciuta come la Barca e Bertolla, porzione di terreno ai margini di San Mauro, Torino e Settimo. Area attraversata ancora oggi da canali, bealere, fontane sorgive e naturalmente il grande fiume la fa da padrone, distribuendo capricciosamente piene ed alluvioni, ma fornendo anche l’elemento naturale per la sopravvivenza dei suoi abitanti: l’acqua. Già nel 1600 si ha notizia della presenza stabile lungo le sue sponde di pescatori, barcaioli, mulini natanti che sfruttavano la forza idrica generata dal passaggio dell’acqua, e nel secolo successivo di renaioli, cioè cavatori di ghiaia, sabbia ed appunta rena, estratta dal fondale del fiume, materiale prezioso, utilizzato nei tanti cantieri che stavano cambiando il volto della città.
Eppure in questi luoghi si sviluppò una fiorente attività oggi dimenticata: lavanderie a conduzione famigliare, i cui filari di bucato steso, caratterizzavano non solo il paesaggio del Moschino, ma la zona adiacente alla Gran Madre, giù giù fino a corso Moncalieri e la futura piazza Zara.
Con la successiva distruzione del Borgo del Moschino, la nascita dei Murazzi, la realizzazione di nuovi quartieri lungo corso Moncalieri, che sottraevano sempre più spazi e terreni a ridosso del Po, ma soprattutto per una serie di ordinanze comunali volte ad impedire lo sciorinare dei panni e l’asciugatura del bucato, per motivi di decoro, non solo lungo le aree adiacenti al Po, ma in tutte le vie cittadine, costrinse molte di queste famiglie di lavandai ad una silenziosa ma inesorabile migrazione.
Il decreto comunale del 1935, che vietava, per motivi di decoro urbano, lo “sciorinare dei panni lungo i rii e nelle vie cittadine” e quindi anche sulle sponde del fiume, costrinse gli ultimi lavandai ad una lenta ma progressiva migrazione verso le realtà periferiche di Barca e Bertolla. Migrazione che era già iniziata a partire dal 1860, quando sempre il Comune di Torino, approvò il Regolamento per gli stabilimenti insalubri incomodi e pericolosi, che causò l’allontanamento dei lavandai dalla città, ma soprattutto dalle sponde dei suoi fiumi.
Appena nove anni dopo, nel 1869, nella regione Bertolla, si ha già notizia di una Lega dei Lavandai. Ovvero una Associazione dei Lavandai, contadini ed operai di Bertoulla Torinese, per mutuo soccorso e istruzione, che arrivò a contare 226 soci nel 1885.
In realtà questa “Lega” non era una associazione professionale. Tanto meno una società operaia di mutuo soccorso. Era una specie di cooperativa, il cui scopo principale consisteva nel produrre e distribuire ai suoi soci, a prezzi convenienti, il detersivo detto “La Fènice”: un composto di soda caustica, soda solvay ed oglina, una sorta di detersivo ante litteram, usato efficacemente da tutti i lavandai.
Agli inizi del Novecento la regione Bertolla contava circa 5000 abitanti, non tutti lavandai, perché circa quattro quinti della popolazione erano composti da agricoltori e più ancora di operai.
La categoria dei lavandai era costituita da circa duecento famiglie: un migliaio di persone che si tramandavano questo mestiere.
Difficilmente i giovani contraevano matrimoni fuori del loro ambiente. I capi di famiglia ultrasettantenni, erano veri e propri patriarchi: Vincenzo Martinengo, Antonio Bertinetti, Domenico Bongiovanni, forti e robusti malgrado il logorio fisico del lungo lavoro, non certo regolato dalla prescrizione delle otto ore.
Famiglie di lavandai, dai più piccoli agli adulti, che hanno lavato i panni a generazioni di torinesi. La loro attività era semplice, ma fondamentale per le esigenze di una popolazione, in larga parte, ancora priva dell’acqua corrente in casa. Lavoro che si basava grazie all’acqua di fiume e sulla lisciva, la “lessia”. Sostanza ricavata dalla cenere, ed usata poi per il bucato.
Nei primi anni del secolo scorso, vennero censite almeno duecento famiglie di lavandai, presenti nel territorio, con circa un migliaio di persone, fra giovani e adulti, che si occupano a tempo pieno di questa attività. Che non conosceva pause, salvo il riposo domenicale.
Solo il boom economico degli anni Sessanta, che introdusse nelle famiglie torinesi e non solo, la lavatrice ed altri elettrodomestici, fino allora sconosciuti, segnò la fine del mondo dei lavandai di Barca e Bertolla, e nel frattempo dell’enclave mappanese, nato a sua volta da una migrazione novecentesca da questi borghi.
Molte lavanderie artigianali a conduzione famigliare chiusero. Altre invece, legate sempre alle ormai storiche famiglie di lavandai, originarie di questi luoghi, come i Peirone, i Necco, i Gilardi, gli Scarafiotti fecero il grande salto: trasformando a livello industriale l’attività dei loro avi. Imprese che ancora oggi danno lavoro a centinaia di dipendenti, con fatturato annuo di milioni di euro. Alla cui guida si sono succeduti i discendenti di quei primi lavandai mappanesi.
Imprese che hanno subito i contraccolpi dell’epidemia da Covid, soprattutto per quello che riguarda i comparti del settore alberghiero e ricettivo, ma che sono pronte a riprendere lo storico cammino iniziato più di cento anni fa.