Riceviamo dal dottor Enrico Ansaldi questo articolo…pungente e molto volentieri lo pubblichiamo
Mentre l’attenzione generale, sotto tanti punti di vista, è focalizzata sul vaccino in quanto farmaco, non va dimenticato che, trattandosi di una somministrazione intramuscolare, per ogni dose inoculata, è necessaria una siringa. Nella maggioranza delle persone la puntura non crea più angosce, ad eccezione di chi soffre di fobie patologiche come la belonefobia, paura per gli aghi, o la tripanofobia, paura per le iniezioni, che possono impedirne la vaccinazione, così come altre terapie parenterali o prelievi di sangue.
Se parliamo di siringhe, visualizziamo una confezione sterile contenente un cilindro di plastica con all’interno un stantuffo con una guarnizione di gomma, di grandezza variabile, da pochi cc sino a 20cc ed oltre, spesso già completa di ago e, a volte, già pre-riempita con il farmaco. Basta aprire la confezione, inoculare il preparato e…voilà, tutto fatto. Già fatto? diceva una nota pubblicità di aghi. Poi il tutto, trattandosi di materiale monouso, ci mancherebbe, viene buttato negli appositi contenitori per il corretto smaltimento di ciò che è diventato un rifiuto da smaltire correttamente.
Ma com’è che ai più anziani a sentire parlare di punture corre ancora un brivido lungo la schiena? No, non si tratta di un disturbo d’ansia, irrazionale, ma qualcosa di molto più concreto. Per spiegarlo bisogna però fare un passo indietro nella storia della medicina.
Siamo intorno al 1850 e le siringhe nella forma in cui le conosciamo noi prendevano forma, erano realizzate in metallo e l’avanzamento del pistone era regolato da un sistema a vite, poi modificato a pressione, come nelle attuali. Solo agli inizi del ‘900 venne realizzata una siringa completamente in vetro, un materiale che consente una ri-sterilizzazione più sicura, che avveniva mediante bollitura in appositi contenitori in alluminio su stufette o fornellini a gas. Nelle corsie ospedaliere il brontolio dell’acqua nei bollitori era un rumore costante, in quanto la ri-sterilizzazione delle siringhe necessarie per le terapie, avveniva a ciclo continuo. I kit per iniezioni, presenti non solo in ospedale, ma un po’ in tutte le case, contenevano, di solito, oltre alla siringa, 1 o 2 aghi corredati di fili d’acciaio per la loro pulizia interna e il materiale, una volta usato, andava pulito e ri-preparato per un nuovo utilizzo, in quanto non era, come adesso, monouso.
Storicamente i primi aghi erano costruiti con metalli nobili, oro, argento, platino e poi nickel, perché si pensava che le infezioni fossero causate dall’ossidazione dei metalli. Pur se di calibro variabile, terminavano sempre con la punta obliqua, a becco di flauto, per ottenere un profilo in grado di perforare i tessuti con il minimo trauma. Purtroppo però riutilizzandoli più volte, come avveniva sino agli Anni ’70, l’ago si spuntava e la punta andava “rifatta”, o strofinandola su carta abrasiva a grana sottile o, se non ce n’era, dicono le malelingue, su qualunque superficie riuscisse a smussarla un po’, ed il lato B dei tavoli di marmo, onnipresenti in tutte le case, era tra i più sfruttati. Chi praticava le iniezioni, allora, non solo doveva essere bravo a introdurre l’ago nel tessuto ma anche a saperlo rimettere a nuovo con maestria, perché meglio ci riusciva, minore risultava il dolore.
“Tra un bicchier di vino ed un caffè”… abbiamo ricordato quei tempi con Gianni e Vanni, vecchi amici e casellesi.
A Caselle il punto di riferimento per le iniezioni era il Baulino, dove, grazie alla presenza delle suore di san Vincenzo, infermiere, (e tra tutte, chi non ricorda suor Vincenza) era attivo un ambulatorio dedicato, dove venivano praticate, con un’offerta, le cure iniettive.
Ma se il malato non poteva muoversi? Bisognava cercare qualcuno che andasse a casa, perché una volta il paese era sì molto più piccolo, ma molta più gente abitava in campagna ed i mezzi per spostarsi raramente andavano oltre alla bicicletta, mezzi agricoli esclusi, con difficoltà di spostamento specie nella stagione invernale, quando, rispetto ad adesso, faceva molto più freddo e le neve ci faceva compagnia molto più a lungo. Ancora una volta venivano in soccorso le ostetriche, allora molto presenti nel tessuto sociale di tutti i paesi, che, oltre alle competenze professionali, conoscevano anche molto bene le realtà territoriali, perché molti parti avvenivano a casa. Come non ricordare l’ostetrica Bellino, e poi “tota” Crespi, e le ostetriche Margara e Bertolino, chiamata “madama ‘d piasa” , in quanto risiedeva in piazza Boschiassi. Inoltre, come spesso succede nel bisogno, c’erano persone che pur non possedendo una formazione specifica, si erano accorte di avere una predisposizione assistenziale ed avevano sviluppato una grande manualità, diventando un prezioso punto di riferimento per la popolazione del paese. Tra queste ricordiamo Jolanda Pucchio, Mariuccia Panizza, Emma Vaudagnotto, Clementina Borla (?), che sicuramente non erano le sole, ma erano tra le più richieste e disponibili, e contare una persona che sapesse fare un’iniezione senza fare male, o almeno non troppo male, come ricordavamo prima, faceva la differenza. Poi venne “PIC indolor”, dal nome, un ago più resistente ed affilato che faceva meno male dei precedenti. E poi sono venute le siringhe e gli aghi monouso, ed è iniziato un altro mondo. E qui vorrei aggiungere un piccolo ricordo personale. L’inizio dell’utilizzo del materiale monouso, in specie negli ospedali, non è stato facile. La mentalità dell’usa e getta ha fatto molto fatica ad affermarsi, in quanto allora era vista come un inutile spreco, soprattutto da parte delle caposala, per lo più, suore, notoriamente …”econome”, che tenevano le “nuove siringhe” sotto chiave. Poi, via via, il monouso ha preso il sopravvento, non solo più per le siringhe, ma per la , maggior parte del materiale sanitario, guanti, taglienti, teli, ecc. ed adesso i problemi sono di inquinamento, di smaltimento dei rifiuti sanitari, dei taglienti, di protezionistica. Ma questa è un’altra storia!
Enrico Ansaldi