Spesso si sente dire con tono di voce importante o addirittura esclamativo che i proverbi sono la saggezza dei popoli, soprattutto quando escono dalla banalità e in qualche modo confermano la realtà delle vicende che accadono.
“Non c’è due senza tre” e per il terzo anno consecutivo domani sarà ancora una Pasqua diversa, una festa che porterà nuovamente con sè il sapore amaro di un uovo di cioccolato di cui ci è già nota la sorpresa. Una ricorrenza, non soltanto religiosa, che fino all’altro ieri abbiamo creduto di poter vivere finalmente, e fuori di ogni metafora, a viso aperto, riassaporando il profumo della normalità, lontani quasi del tutto dagli artigli di una pandemia che da oltre due anni sta listando a lutto gran parte del nostro pianeta.
E invece… Con le mani chiuse a pugno ci scambieremo ancora gli stessi auguri e le stesse speranze mentre dalle campane, di nuovo sciolte, usciranno i primi rintocchi, fino all’altro ieri festosi e commoventi messaggeri di una ormai lontana Resurrezione. Serviranno, purtroppo, soltanto da eco terribile al rumore sordo delle bombe di una guerra che pur non divampando dietro l’angolo, per la prima volta scopriamo essere anche nostra.
E per la prima volta scopriamo, seriamente preoccupati e forse impauriti, di aver perso quell’abituale e un po’ svagata indifferenza con cui fino all’altro ieri imponevamo all’obbediente e neutrale telecomando di eludere la tristezza e la disperazione di altre guerre che, quasi sempre da continenti diversi, irrompevano nelle nostre case sorprendendoci nei momenti di maggior intimità familiare.
Russia e Ucraina due realtà simili, forse addirittura fraterne, unite non soltanto da una lunga linea di confine geografico, combattono sul suolo della giovane repubblica, un conflitto che tutti adesso, politici in testa, saltando sul carro di improvvisati e tardivi pacifisti, dicono di non aver mai voluto e di aver anzi sempre fortemente osteggiato.
Non creano eccezione i nostri ineffabili rappresentanti, che assaltando gli spazi accoglienti di qualunque salotto televisivo fanno sfoggio, come a suo tempo succedeva all’ esercito degli improvvisati virologi, di insospettate conoscenze belliche. Attenti a non dimenticare il proprio marchio di fabbrica stampato sul berretto riescono a trovare per la guerra in corso anche improbabili quanto odiosi comparativi di maggioranza, retaggio di indimenticato nozionismo grammaticale, per condannare o “comprendere” quanto sta accadendo.
Intanto sulle città si abbatte la distruzione degli edifici strategici e delle abitazioni civili e chi può, abbandonando a malincuore anche i vecchi genitori infermi, fugge portandosi dietro soltanto i bambini ai quali la colpevole determinazione, oppure l’inspiegabile ostinazione, degli attori principali del conflitto ha violentemente sottratto il presente e forse addirittura già rubato il futuro.
Di fronte a questa situazione, la speranza che il buon senso, corroborato magari da intelligente diplomazia politica, conduca presto alla ragione chi vede nella ineluttabile distruzione e nell’inutile sacrificio umano il trionfo dell’orgoglio nazionale, oppure chi pratica la guerra per rimettere insieme i pezzi di un puzzle perduto per sempre, rischia di essere poco più di un’ illusione.
Quel set televisivo è deserto da tempo. Le attrici e le comparse di quella finzione si sono perse nei ricordi per diventare figure drammaticamente vive, in viaggio disperato verso un nuovo, ignoto approdo fuori dai propri confini che difficilmente potrà essere solo provvisorio.
L’attore protagonista, a cui sconvolgendo ogni consolidata regola cinematografica è toccato prima recitare il copione del film e poi rivivere l’identica parte nella realtà del proprio Paese, accetti concretamente e senza ulteriori eroismi, difficili da comprendere e ancora più difficili da giustificare, la triste verità. A quelle madri, ancora prigioniere delle bombe o già lontane dalla guerra che non vediamo mai piangere semplicemente perchè hanno finito le lacrime, e a quei bambini, a cui è concesso unicamente la compagnia e l’amore di un peluche da stringere tra le tenere braccia, restituisca il marito, restituisca il papà. Non sarà una resa, né tantomeno una umiliazione, se servirà a evitare che un giorno, sulla faccia modello “luna piena” del nuovo zar possa riproporsi l’immagine beffarda e clownesca di quei due baffetti già tristemente impressa nella nostra memoria.
Fra qualche giorno sarà il 25 Aprile e mai come quest’anno dovremo evitare le consuete, vuote parole di sindaci impreparati o di politici svogliati rintracciati all’ultimo istante. In queste ore terribili di guerra, non lontano da casa nostra, il giovane Dimitri uccide suo fratello. Ognuno di noi, e in particolare chi con la mente può tornare per un attimo giovane sulle nostre montagne, saprà capire. E per la prima volta, schiudendo quelle labbra per anni serrate in una morsa di rabbia e di dolore , forse lascerà che esca, finalmente fraterna e benefica, soltanto una preghiera.
La prima volta
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