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domenica, Ottobre 13, 2024

    Il Grande Assente

    È trascorso quasi un mese e mi è ancora difficile nascondere delusione e tristezza pensando alla recente ricorrenza del 25 aprile per molti giorni mortificata dalla sterile, interminabile diatriba sulla opportunità di diffondere televisivamente un monologo della durata di un minuto confezionato da un illustre letterato dietro compenso da attingere alle risorse del servizio pubblico. Con buona pace di questo scrittore, a suo dire, letto e tradotto in tutto il mondo, il ricordo del 25 aprile, quello dei nostri dintorni geografici, quello dei nostri cari, non potrà mai confondersi o esaurirsi nello spazio di un minuto e, soprattutto, mai potrà impedirci di ricordare con orgoglio che chi di questa ricorrenza con il sacrificio della vita ha scritto il testo originale non ha chiesto alcun compenso.
    E intanto, preceduto da un inatteso clima scarsamente primaverile è arrivato maggio per ricordare al contadino di seminare il granoturco, all’appassionato ortolano di annegare nei solchi appena tracciati tuberi e speranze affinché diventino ricco raccolto, e a tutti i lavoratori che il primo giorno del mese è la loro festa. Una ricorrenza, il Primo Maggio, nata in America verso la fine dell’Ottocento per festeggiare la conquista delle otto ore giornaliere di lavoro, sospesa in Italia negli anni del “ventennio” per ritornare nel 1945 a conflitto mondiale ultimato.
    Dagli Anni Novanta in questa data i nostri sindacati confederali organizzano nella piazza più capiente di Roma un interminabile concerto musicale, anzi un concertone, in cui gli immancabili, trafelati segretari nazionali, facendosi largo fra le note assordanti di musiche spesso incomprensibili si muniscono di una apposita voce da stadio per arringare una folla ormai impropriamente definita di lavoratori che conosce a memoria i soliti animati e spesso animosi passaggi verbali degli oratori sulla irrinunciabile dignità del lavoro, la sua giusta retribuzione e la sicurezza della piena occupazione non rendendosi conto che a quello come ad altri simili appuntamenti in piazza, sempre ed opportunamente corredati di slogan, bandiere, striscioni, e drammatiche colpe altrui, da parecchi anni c’è un grande assente, quello di cui tanto si parla: il lavoro.
    Peccato. Perché c’era e l’abbiamo smarrito. Nel nostro capoluogo e di riflesso nella nostra regione dove maggiore e, per provenienza geografica o culturale, più variegata era l’occupazione, a partire dai terribili Anni Settanta in molti, con atteggiamenti sociali e politici non solo discutibili, si sono adoperati con innegabile successo affinché al nostro lavoro si offrisse l’occasione per scegliere altre destinazioni. Per questo in molti lavoratori di allora, ad ogni Primo Maggio, guardando quelle piazze, si rinnova l’immagine tristemente surreale di uno stadio gremito in cui molti presuntuosi e un tempo seguitissimi protagonisti continuano a giocare la stessa partita senza il pallone.
    Molto più contenuto e non privo di giovanile tenerezza è il mio ricordo del Primo Maggio a Caselle di tanti anni fa. Sul Prato della Fiera verso l’ospedale Baulino, oltre il campo di calcio, per l’occasione arrivavano alcuni giostrai. Erano quelli che per vari motivi non trovavano posto nell’appuntamento di settembre sulla Piazza Boschiassi o sulla piazzetta della stazione, dove per consuetudine si sistemava la più moderna e lussuosa autopista dell’anziana signora Rolandi. Fra loro la famiglia Picci , genitori e quattro figli, titolari di analoga seppur meno elegante attrazione fino ad una decina di anni or sono sempre presenti alla festa di Sant’Anna a Corio. Completavano il modesto parco divertimenti un tavolo rotondo sistemato all’interno di una elementare struttura in legno decorato. Su di esso poggiavano piccoli barattoli in vetro contenenti un pesciolino rosso che si aggiudicavano coloro che sapevano infilare da breve distanza una pallina da ping pong nel contenitore. Infine il tiro a segno che offriva , insieme a oggetti di scarso valore, i famosi “mignin” a chi riusciva a colpirli con il tappo licenziato da un fucile ad aria compressa.
    Una giornata che lavoratori e famiglie, ancora lontani dalla futura ossessiva gestione del calendario per trovarvi eventuali ponti infrasettimanali, vivevano in paese come meritato riposo, tiepidi protagonisti oppure incuranti spettatori di modesti cortei cittadini o di comizi di circostanza in cui, alla presenza di pochi intimi, si raccoglieva l’eco politico di piazze più importanti.
    E domani si tornava al lavoro. A quel lavoro che per anni, oggi lo riconosciamo, si è affacciato alla nostra porta come un miracolo anche economico o, se preferiamo, come una vittoriosa partita di calcio. Oggi, per tornare a sperare, l’unico miracolo sarebbe ritrovare quel pallone.

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