Seduto in una poltrona della terza fila, a luci già parzialmente spente, ascolto il brusio che nella sala Cervi si va via via infittendo in attesa che, trascorso l’ormai abituale quarto d’ora oltre l’orario previsto, si apra il sipario. Il nostro Direttore nei giorni scorsi aveva convocato per il primo sabato di novembre amici e simpatizzanti per una serata di musica, parole e curiosità culturali. Una serata che, per il titolo evocante un semplice quanto efficace modo di dire dialettale, poteva sembrare destinata ad un ambito geograficamente circoscritto. Si è rivelata invece emozionante e coinvolgente fino a indurre il pubblico presente ad indossare la cintura di sicurezza per fare, con i sorprendenti Patrizia ed Elis, il giro del mondo in nemmeno due ore.
Il viaggio è partito dalle sponde del fiume di casa nostra per trasformarsi in un omaggio sincero e doveroso a Gipo Farassino di cui, tra il picaresco e l’agreste, abbiamo rivissuto le gesta di alcuni suoi celebri personaggi. Ho cantato anch’io, sottovoce. Non mi sarei aspettato un regalo tanto grande. Ricordo quasi tutti i testi delle canzoni incise dallo chansonnier torinese tra gli Anni 60 e 70 su dischi 33 giri in vinile che allora si potevano trovare sugli scaffali dei magazzini Standa, convinto che riascoltarli più volte mi avrebbe aiutato a migliorare la conoscenza della lingua piemontese, diventata nel tempo un ricco e purtroppo quasi inutile patrimonio.
In fondo, il Bertu del Sangon Blues che, “imparati” i muscoli nella palestra cittadina, nei fine settimana parcheggiava la Vespa e si buttava tra le onde o si sdraiava al sole come le lucertole tra la compiaciuta ammirazione di qualche giovane signora, è appartenuto a tutti noi. Poco importava che il lunedì mattina, non solo per l’intraprendente tornitore ma per tutti quei giovani di paese che ne seguivano le gesta, smessi gli abiti sgargianti alla Elvis, si spalancasse la solita realtà dell’officina meccanica , della carpenteria o del laboratorio di falegname. E mentre il buon Peppino Musci, paternamente fingeva di comprendere senza alzare la voce, dall’altra parte di Caselle Drein Balma, illuminato artigiano del ferro, sottolineava eventuali errori o disattenzioni del Bertu locale con colorite espressioni dialettali che non necessitavano di traduzione.
Viveva sola, al primo piano di un cortile non troppo affollato e forse anche lei da giovane aveva fatto l’impiegata. L’ho conosciuta, pur non avendole mai parlato, quando già i segni del tempo avevano privato il suo volto della freschezza giovanile che ora sembrava riapparire per le virtù e la carezza di un timido, delicato rossetto e la presenza di un paio di preziosi orecchini che i capelli raccolti sulla nuca provvedevano a mostrare. Salivano i pochi gradini e guardinghi, quasi nascosti nei loro abiti di buon taglio, scostavano la tenda e con una grazia che mai avrebbe potuto offendere chiedevano di poter entrare.
Pensavo a lei mentre nella sala si diffondevano attività e astuzia di Matilde Pellissero, detta Tilde che alla fine, raggiunta la tranquillità economica, religiosamente congedò tutti i fruitori delle sue grazie, innamorato compreso, prendendo i voti. A Caselle, più concretamente, prevalse l’eredità.
Sono poi soltanto canzoni, meditavo affondato nella mia poltrona in terza fila. Appartengono, mi ripetevo, ad un mondo ormai lontano, sicuramente meno complicato del nostro, capace tuttavia di contrassegnare un modo di vivere che ancora oggi, indurrebbe umana solidarietà nei confronti del generoso operaio innamorato che, rincasando quasi addormentato con l’ultimo tram, beffardamente si sente chiamare “prusot” dalla compagna infedele che poi nella realtà gli preferisce un improbabile nostrano Gary Cooper.
Il viaggio in sala Cervi prosegue proponendo sapientemente musica, spaccati di socialità e importanti aspetti culturali di altri continenti.
Io, emozionato e felice, decido di fermarmi qui. Al primo piano del numero 6 di via Cuneo. Ad aspettare.
A giorni infatti, e senza troppi rimpianti, si congederà un altro anno che ricorderemo sicuramente per la guerra, per l’ accanimento contro la povertà dei più deboli e forse per il nuovo diverso governo. A Caselle sarà ricordato per una sorta di restaurazione politica che ha riportato a palazzo un vecchio e mai dimenticato inquilino.
Ma il nuovo anno come sarà ? Mi sovviene il pensiero felice del leopardiano venditore di almanacchi e, insieme, mi soccorre l’esperienza di chi ha vissuto già tante volte l’inizio di un nuovo anno per sperare e credere che nonostante difficoltà e timori minacciati ogni giorno, sarà un anno migliore.
Continuerà a scandirlo, senza indugi e senza concessioni, soltanto il galoppare del tempo che velocemente si lascia tutto alle spalle.
E proprio al tempo mi piacerebbe poter parlare, ora che lo sento più sfuggente, per raccomandargli, malgrado tutto, un antico desiderio: “Cor nen , va pian”.
Cor nen, va pian!
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