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    11 Febbraio 1918, la “Beffa di Buccari” del Vate

    10«Credo che di rado uomini furono così compiutamente pronti a un’azione disegnata. Nulla manca; tutto è previsto. L’indugio non ci giova più; ci logora.», Gabriele d’Annunzio, La Beffa di Buccari.
    L’11 febbraio del 1918, Gabriele d’Annunzio ed alcuni assi e “corsari” della Regia Marina italiana misero in scena la Beffa di Buccari, così battezzata dal Vate. Una missione di “forzamento” della base navale austroungarica collocata nel golfo di Fiume, oggi Rijeka.
    «Non torneremo indietro. Memento Audere Semper leggo sulla tavoletta che sta dietro la ruota del timone: il motto composto poco fa [da d’Annunzio], le tre parole dalle tre iniziali che distinguono il nostro Corpo. Il timoniere ha trovato subito il modo di scriverle in belle maiuscole, tenendo con una mano la ruota e con l’altra la matita. “Ricordati di osare sempre”.»
    La volontà del celebre poeta italiano era quella d’infliggere un colpo significativo al nemico, di natura militare ma pure politica, al fine di risollevare il morale del Regio Esercito, della Marina e del fronte interno, successivamente alla disfatta di Caporetto.
    La settimana precedente all’azione, il 4 febbraio, un idrovolante italiano sorvolò Pola, Fiume e Buccari (oggi Bakar, cittadina a pochi chilometri da Fiume) dando la prova della presenza di ottima parte delle navi da battaglia dell’Impero più alcuni piroscafi, unità tutte dislocate tra Fiume e Buccari.
    Si scelse Buccari e nella notte dell’11 febbraio, dopo un rimorchio di torpediniere durato 14 ore, i MAS (Motoscafo armato silurante) 94, 95 e 96 (quello sul quale s’imbarcò d’Annunzio, esposto oggi al Vittoriale degli Italiani) comandati dal Capitano di Fregata Costanzo Ciano, s’imbucarono “a casa del nemico” realizzando l’idea dannunziana. L’impresa, però, riuscì sul piano politico piuttosto che militare, fregiandosi d’un valore simbolico poiché le quattro prede mercantili alla fonda a Buccari erano ben protette da reti antisiluranti e rimasero illese.
    «Anche se non furono provocati danni, infatti, l’impresa costrinse il nemico a impegnarsi nella ricerca di nuove strategie di difesa e di vigilanza, ed ebbe “una influenza morale incalcolabile” [sul morale italiano].», si legge sul sito DifesaOnline.
    D’Annunzio, a bordo del 96 con l’asso Luigi Rizzo – affondatore della corazzata Wien alla fonda nella baia di Muggia, a Trieste, nella notte del 9 dicembre 1917, sempre tramite MAS – preparò con stile piratesco e lasciò con gesto irrisorio tre bottiglie contenenti lo stesso messaggio: «In onta alla cautissima Flotta austriaca occupata a covare senza fine dentro i porti sicuri la gloriuzza di Lissa, sono venuti col ferro e col fuoco a scuotere la prudenza nel suo più comodo rifugio i marinai d’Italia, che si ridono d’ogni sorta di reti e di sbarre, pronti sempre a osare l’inosabile. E un buon compagno, ben noto – il nemico capitale, fra tutti i nemici il nemicissimo, quello di Pola e di Cattaro – è venuto con loro a beffarsi della taglia».
    Con «la gloriuzza di Lissa» il Vate volle deridere la vittoria asburgica nella battaglia navale di Lissa del 20 luglio 1866: nella cornice della guerra austro-prussiana; mentre con «beffarsi della taglia» si riferiva a sé stesso e alla taglia di 20 mila Corone postagli sul capo dagli austroungarici dopo il primo volo su Vienna, il 7 agosto 1915.

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