Se il mese scorso ci avessero chiesto per un imprecisato motivo o per qualche urgente necessità di andare a letto alle due del mattino per quasi una settimana, avremmo senz’altro obiettato che gli impegni, l’età e altre assortite difficoltà quotidiane, non potevano consentirci un simile sacrificio.
Poi la magia di Sanremo, che continua impunemente a definire quell’appuntamento per nottambuli festival della canzone italiana, tra curiosità e nostalgia ci ha nuovamente catturati avviluppandoci la mente negli indelebili ricordi di gioventù e le gambe nell’ormai inseparabile vistosa coperta di lana che, stesa di giorno sui cuscini , dà colore e vivacità allo smorto divano del nostro salotto.
Sul palco della città dei fiori in oltre settant’anni è passata e continua a passare ininterrottamente la storia della nostra musica leggera e insieme quella della nostra società che mai per un periodo tanto lungo è stata attraversata da una pace di cui soltanto in questi momenti cogliamo appieno il significato.
Eravamo bambini quando dal salone delle feste del Casinò la signora Pizzi Adionilla, in arte Nilla Pizzi, dolorosamente ringraziava il noto mittente di quelle tanto gradite rose rosse oppure affidava, con amoroso sentimento, ad una bianca colomba la storia appena scritta del tormentato capoluogo giuliano.
Poi arrivò, quando la televisione era ancora in bianco e nero, il blu del più popolare guascone della musica italiana e tutti da quel lontano 1958 cominciammo a volare cantando e fischiettando le note di un’illusione e di una speranza che poi entrambe ci tennero effettivamente compagnia per diversi anni.
A Caselle “Volare”, a causa del loro mestiere, già dalle prime ore del mattino la cantavano, in Via Torino angolo Via Mazzini, anche i fratelli Giuseppe e Giovanni Corgiat. Insieme lasciavano che la musica della loro voce e della chitarra con cui si accompagnavano si mischiasse con il calore ed il profumo del pane che stava nascendo per diffondersi poi felicemente nel negozio in cui mamma Giovannina pesava e incartava rosette e “pastadura”, non trascurando di annotare per alcuni meno fortunati il modesto importo sul mortificante libretto nero le cui pagine soltanto il sabato sera si potevano strappare.
Nello scorso mese di gennaio alla vigilia del festival Giovanni, sistemata l’ultima “biova” sotto il braccio per affrontare il viaggio, se ne è andato. Mi è rimasta l’immagine del nostro ultimo fortuito incontro avvenuto a Corio, dove Giovanni ha le proprie radici. La sorpresa e l’emozione ci impedirono di andare oltre la banalità e soltanto adesso, commovente e fragrante come il pane di allora, mi sovviene l’affettuoso ricordo dei nostri anni giovanili vissuti da vicini di casa fino a quando mi catturò il richiamo del neonato Viale degli Aceri dove la signora Bettina che già possedeva un vecchio televisore, in occasione del Festival convocava i vicini di condominio, con la precisa consegna, specie per i più piccoli, dell’assoluto silenzio.
In seguito, passando attraverso ragazzine che non avevano l’età, finte lacrime sul viso e zingare dal futuro tradizionalmente facile, seguite da coraggiosi uomini soli, la più famosa rassegna canora italiana è arrivata ai nostri giorni trasformandosi via via in un discutibile specchio sociale che pur protraendosi nelle ultime edizioni per ben cinque interminabili serate destina alle canzoni, col tempo sempre più pretestuosamente impegnate, un ruolo quasi marginale.
Molti di noi rimpiangono i famosi ritornelli musicalmente semplici e a volte anche dal testo banale che fischiettati o cantati, magari stonando, sembravano alleggerire il peso del lavoro quotidiano con attimi di spensieratezza che temiamo irrimediabilmente perduti .
Negli ultimi anni infatti la scena sanremese è appartenuta in gran parte a finti predicatori, fortunatamente oggi in disarmo, preceduti da personaggi comici poi pericolosamente approdati alla politica nazionale, per finire alla recente surreale esibizione parlata di un moderno re Mida in gonnella a cui fa da corredo una non meno triste figura di marito. Abbiamo scoperto inoltre, per merito di una grande pallavolista nigeriana, lunga di gambe e corta di riconoscenza, di essere un paese razzista. Pazienza, noi continueremo ad applaudirla.
Ma non possiamo applaudire nonostante gli immancabili, puntuali e spesso interessati inviti al perdono e alla comprensione giovani ragazzi viziati, ubriachi speriamo soltanto di improvviso successo, che senza alcun valido motivo decidono di prendere tutto a calci sul palco di Sanremo, soprattutto quei fiori, nati dall’impegno e dal sacrificio di onesti lavoratori della Liguria.
Alla fine di una sua sofferta, struggente canzone il grande Fabrizio de Andrè ha cantato per anni come dal letame nascano i fiori, quale segno di amore e di speranza. Chi potrà mai dirgli che oggi dal letame nasce soltanto l’ombra lunga e squallida del Grande Fratello e dei suoi dintorni ?
C’era una volta il Festival
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