Quando i responsabili dell’ Amministrazione di una città denunciano o esibiscono costi di gestione, da anni sempre crescenti, degli edifici pubblici, e nel caso della nostra vecchia storica scuola elementare, paventano anche possibile pregiudizio per la incolumità degli studenti di una struttura situata al di sotto della rotta degli aerei, è difficile sostenere l’efficacia di qualunque altra argomentazione anche palesemente ragionevole.
E così, se non interverranno fatti nuovi e sicuramente a malincuore, a breve gli alunni della scuola primaria Collodi di Via Guibert, nell’ambito di una promessa, corretta razionalizzazione degli spazi altrove esistenti e soprattutto in ossequio all’indispensabile contenimento dei costi energetici, si ritroveranno tutti insieme in un altro unico plesso scolastico cittadino.
Non ho titolo per entrare nel merito della iniziativa. Ho soltanto l’incancellabile ricordo degli anni in cui ho abitato quell’ edificio, per me, prima soltanto severo e poi sempre più familiare. Quasi tutti gli Anni Cinquanta del secolo scorso: dal faticoso poverissimo primo dopoguerra alla vigilia dell’indimenticato “miracolo economico”, passando dalle classi elementari ai successivi primi due anni dell’allora “scuola di avviamento”, che negli anni a seguire lascerà lo spazio alla media unificata.
In modo sempre carente e provvisorio, l’avviamento agrario per i maschi e di arti domestiche per le ragazze, nato da una speciale intuizione del professore sardo Vittorio Bonu, lottando continuamente con gli spazi, riusciva ad alloggiare come ospite, per la verità scarsamente gradito, occupando locali sempre diversi dell’edificio. Il primo anno del corso lo frequentai a piano terra in prossimità del cortile. Il ticchettio continuo e fastidioso della vicina tipografia Cumino faceva eco all’impegnativo prodigarsi degli insegnanti , finché ci venne definitivamente in soccorso il primo piano del Palazzo Mosca.
E di ricordi sono costellati i momenti in cui ritorna la “Caselle dell’altro ieri” con tutto l’amore e l’infantile prepotenza del bambino che smesso il grembiulino dell’asilo è ora ospitato in una nuova, approssimativa divisa che in molti casi nasconde la condizione della propria famiglia soprattutto se appena immigrata dal Sud.
Poi la magia della scuola, la graduale consapevolezza che l’ingresso in quella nuova realtà potrà fornire gli strumenti indispensabili alla vita futura e far nascere amicizie che sembrano a volte dissolversi nel tempo, ha il sopravvento. E l’incanto di quegli anni, che solo qualche fotografia ingiallita per qualche attimo può restituire, è diventato patrimonio di conoscenze, affetti e prime acerbe speranze gelosamente custodito tra le mura della nostra vecchia scuola elementare allora ancora senza nome, dove il bidello Alfredo, scarso di statura, tanti capelli grigi e munito dell’inseparabile camice nero, si sistemava sul portone di ingresso come un’antica vedetta e ogni mattina ci dava il benvenuto prima di impugnare il vecchio innaffiatoio colmo di inchiostro e rabboccare i calamai posti al centro dei nostri banchi. Per lui la scuola era anche abitazione e grande era la nostra giovanile invidia per la figlia Rita che d’inverno poteva evitare il freddo da cui noi, spesso soltanto scarsamente coperti, faticavamo a difenderci.
Per chi ha frequentato quelle aule è difficile dimenticare la piccola, ferrea maestra Benaglia, le pacate maestre casellesi Gerardi e Cereja e la materna triestina Benci. A ognuna di loro il piemontese di adozione De Amicis avrebbe dedicato un capitolo del suo famoso romanzo. I maestri Bognolo, Ruggeri e Mazzotta rappresentavano l’insegnamento al maschile. Soprattutto di quest’ultimo, tra i primi immigrati dalla lontana Sicilia, è difficile dimenticare la severità che induceva alla soggezione ragazzini e genitori.
E domani per me sarà ancora più difficile, transitando in Via Guibert, appoggiare con un lampo di simultanea felicità e tristezza, lo sguardo sulla scuola dove con i vecchi compagni di classe ci siamo impadroniti tanti anni fa delle prime lettere dell’alfabeto della vita. Nel tempo qualcuno di loro se ne è andato.
Dalla finestra al secondo piano della casa vicina la signora Nilde osserva ed indirizza con lo sguardo l’ingresso a scuola del figlio Alberto sul cui grembiulino nero spicca un elegante rigido colletto bianco ed un fluente fiocco di seta blu. Alberto Cesa, realtà piemontese interprete di vecchie tradizioni canore non solo locali, con la ghironda in spalla, ci ha lasciati in un freddo mattino di gennaio di tredici anni or sono.
Ai locali della scuola Collodi sembra sia stato assegnato un nuovo futuro di sicura utilità sociale che dovrà razionalizzare funzioni cittadine attualmente distribuite sul territorio. Per tutti noi, e soprattutto per i bambini, Collodi significa Pinocchio. L’augurio e la speranza è che domani nessuno si ritrovi con il naso del celebre burattino di legno.
La scuola elementare
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Quello che hai scritto rispecchia la bella realta’ di allora, mi sono rivista bambina in quella bellissima scuola.