Per la prima volta, dal 1887, nessun scolaro in via Guibert. Rimane però il filo dei ricordi.
In alto, più di Gagarin
Per tutti noi Casellesi quella non è mai stata “una scuola”: semplicemente era “la” scuola.
E la differenza che passava tra un articolo indeterminativo e uno determinativo era enorme nel connotarla, marcava netto il nostro modo di sentire nel cuore quell’edificio di Via Guibert.
Fino a quando non è entrato in funzione il plesso di Viale Bona, su quella doppia scalinata ci siamo saliti tutti. E sempre col cuore palpitante.
Il mio ha avuto il privilegio di sentire quei battiti prima da alunno e poi, a distanza di tempo, da maestro. Privilegio puro.
Anche perché “la scuola” per me era praticamente una seconda casa.
Lì ci abitavano Pina e Fredo, la loro figlia Rita era la sorella che non ho mai avuto. Lì ci potevo andare quando tutti gli altri non potevano e il profumo delle aule vuote, dei quaderni e dei libri sapeva essere mio e solo mio fino a stordirmi. Avessi potuto, sarei rimasto lì per sempre.
Non mi ricordo la prima volta, ma non posso dimenticare tutte le altre. Specialmente quelle che hanno accompagnato alcune tragedie della mia vita.
Da Pina e Fredo mi avevano portato, perché stessi lontano dal dolore, quando papà a casa agonizzava e ricordo con straniamento l’incredulità che mi prese pochi giorni dopo seduto sugli scalini della porticina che accedeva al cortile quando ebbi tutti intorno a me, tra carezze e lacrime, senza capire bene cosa stesse succedendo. Perché la maestra mi aveva passato la mano tra i capelli e aveva gli occhi così lucidi? Quella carezza la sento ancora. Così come quel senso di vuoto che ancora mi accompagna e che continua a essere così vivo e presente.
Ogniqualvolta mi portavano da Pina era perché a casa marcava male e sarebbe arrivato un nuovo dolore a visitarmi.
La scuola però, e per fortuna, è stata anche tanto altro.
Quanto mi sentivo importante il giorno in “ prima mignin” quando davanti all’ingresso ci scattarono la foto di classe?
Più o meno in posa come me, lì su quelle scale, belli impettiti e in divisa, mio bisnonno Giuseppe in un’immagine e mio nonno Giacomo in un’altra c’erano stati vestiti da pompieri. Non so se stessi pensando a quello o se mi distrassi, fatto sta che al momento dello scatto venni immortalato con la bocca spalancata. Mamma ne fece una questione di stato, tanto che l’anno dopo – stesse scale, stessa scena – venni ritratto con le mie belle labbra serrate quanto e più d’un lucchetto.
Altro ricordo indelebile, la mostra per celebrare il Centenario dell’ Unità d’Italia.
La maestra chiese a me e ai miei compagni se qualcuno avesse a casa cimeli, ricordi lasciati dai nonni e dai bisnonni. Io alzai la mano e dissi che a casa avevo la medaglia di bronzo di mio nonno che aveva partecipato alla Breccia di Porta Pia del 1870. La maestra disse che non era possibile. “ Ti sei sbagliato, volevi dire tuo bisnonno”… “ No, è mio nonno.”… “ No, è il tuo bisnonno!”..“ No, è nonno”…
La tiritera andò avanti ancora per un po’ sino a quando la maestra si stufò e in lacrime finii sconsolato dietro alla lavagna. Il giorno dopo io e mamma partimmo da casa con medaglia e pergamena sotto braccio e nonno Eliseo divenne la star della mostra.
Nessuno aveva un nonno come il mio, garibaldino e mazziniano, e che aveva fatto l’Italia.
Quel giorno neppure Gagarin era riuscito a volare in alto quanto me.
Elis Calegari
Buona vita, Scuola mia!
Ho varcato per la prima volta il portone della scuola di Via Guibert la mattina del 1° ottobre 1963 come nuova alunna della classe 5° della Maestra Berta, che mi affiancò nel banco all’ altra new entry, Angela De Bernardis con cui sarei diventata “amica del cuore”.
Quella mattina mi accompagnava in classe il nuovo Direttore Didattico, Dottor Gustavo Bertolo, che era poi anche il mio papà. Grembiulino bianco, fiocco blu, scudetto cucito sulla manica, quell’ edificio ai miei occhi imponente ed elegante al centro del paese…tutto contribuiva a farmi sentire orgogliosa di essere una alunna di quella scuola.
I ricordi di quell’anno scolastico sono vaghi, ma restano vivi il profumo di pulito nella grande scala e nelle aule tenute come gioielli da Pina e Fredo, gli unici bidelli ( allora così si chiamavano) presenti e il silenzio che ti avvolgeva quando si superava la soglia.
Silenzio, sì. Anche nei momenti di entrata e uscita degli scolari o nel breve intervallo di mezza mattina. Al massimo aleggiava il brusìo degli insegnanti al lavoro.
Mi piaceva aspettare papà nel suo ufficio per andare a casa insieme, anche accompagnarlo a volte in estate. La scuola era mia: silenziosa, assopita, pulita e profumata.
All’epoca non sapevo che avrei risalito quelle scale dall’altra parte della barricata qualche anno dopo come maestra del doposcuola, gavetta per la mia vita lavorativa, poi per le prime supplenze.
Quanti bambini contenti o recalcitranti ha accolto quella scuola nel corso del tempo!
Ha visto cambiare il tessuto sociale del paese, modificare le esigenze della popolazione e ora si adeguerà ai nuovi cambiamenti restando lì al centro di Caselle pronta ad indossare una nuova veste ad uso e consumo dei Casellesi di oggi.
Personalmente le auguro di essere curata e rispettata come merita, di non diventare un triste edificio pubblico lasciato a sé stesso.
Buona vita “Scuola di Via Guibert”!
Patrizia Bertolo
La terza elementare
Verso la fine di un settembre vecchio ormai di settant’anni, conclusa la festa di Caselle, fra la delusione e il rammarico di un’estate che il tempo sembrava aver ridotto ad un baleno, la curiosità crescente e l’ansia del nuovo che a breve con i miei compagni di classe avrei incontrato, si esaurivano gli ultimi giorni di vacanza. Presto saremmo tornati a scuola nel vecchio, austero, caldo e accogliente edificio di via Guibert, ancora privo di nome. Ci attendeva la terza elementare. Ci sentivamo già grandi e qualcuno, per sottolineare la propria supremazia fisica o per comunicare la sua non invidiabile condizione di ripetente, aveva abbandonato il grembiule nero seguito da altri meno audaci che si erano limitati a deporre il più fanciullesco fiocco di seta blu. La maestra Benci, materna e comprensiva, separandosi affettuosamente da noi, ci aveva consegnati al maestro Mazzotta un insegnante di origini siciliane ingiustamente noto quasi soltanto per la grande severità. Ma se oggi molti scolari di quella terza elementare, arrivati alla inesorabile stagione autunnale del proprio percorso, ricordano ancora a memoria le tabelline, sanno coniugare i verbi e conoscono anche solo sommariamente le parti del discorso, il merito è di questo maestro, prematuramente scomparso. Ha insegnato con serenità e fermezza, inventando pennini e cancelleria come premio agli allievi più attenti e più pronti, con buona pace delle dirimpettaie e forse indispettite Fagnole. La severità, che pure gli apparteneva, non era la sua virtù principale.
Quest’anno in via Guibert per la prima volta non si è sentita la campanella. Il bidello Alfredo non ha rabboccato i calamai al centro del banco dove l’altro ieri, giovanissimi compagni di classe, abbiamo imparato a intingere il pennino per scrivere il nostro futuro. Un futuro che per la nostra vecchia, cara scuola appartiene già al mare vasto e calmo dei ricordi.
Salvatore Diglio
Tempi da favola
Caselle. Via Guibert. Scale. Aula accanto alla direzione. Gustavo Bertolo: un direttore alto, severo, sorpreso alcune volte ad ascoltare le mie lezioni, accanto alla porta. D’altra parte con una maestrina di diciotto anni che di notte le pensa e di giorno le combina, bisogna pur assicurarsi che sappia fare il suo mestiere! Ricordo la mia sorpresa quando il direttore mi propose di tenere i corsi propedeutici all’insegnamento. ” Lei racconti cosa fa nella sua classe, non si preoccupi!” I ricordi davvero indelebili dei dieci anni in via Guibert sono: quei momenti di lavoro di gruppo degli alunni di prima sulle orme di Joan Mirò,(allora in mostra a Torino) tutti a terra accanto ai grandi cartelloni da dipingere socializzando e imparando le regole di gruppo; o quando in classe aveva trovato spazio la Cesira, mamma di Livio, con la sua zangola per fare il burro; o il minicorso di galateo a tavola con il mitico Roberto Beltramo, maitre di hotel e papà di Diego; o quello di fotografia con gli esperti casellesi! In quell’aula arrivava di tutto: i fustini cilindrici del detersivo, per contenere le nove famose parti del discorso con cui li facevo giocare per costruire le frasi da “rimpolpare”, un anticipo di quella che si sarebbe in seguito definita “grammatica funzionale”; carte colorate da origami per la geometria; pietre raccolte sul greto della Stura per creare personaggi buffi; legnetti forniti dall’amico falegname di via Guibert da rivestire di stoffe come personaggi del presepe; semi di tutti i tipi per collages giganteschi, tovaglie da dipingere, ovatte per imbottire e cucire bambole di stoffa da scambiare con libri per la nostra biblioteca…
E quanti canti hanno sentito quelle pareti! Da quello d’ingresso per esprimere la gioia di stare insieme, ai cori che coinvolgevano tutte le classi in vista delle feste principali…Mi improvvisavo maestra del coro, rimpiangendo di non aver imparato a suonare la chitarra!
Io ricordo una scuola così: piena di allegria e di voglia di imparare, sempre alla ricerca di strategie efficaci, in cui i genitori erano spesso coinvolti. E se la scuola di via Guibert dall’aspetto solido e severo la sera come da tradizione chiudeva i battenti, le nostre riunioni “festose”, in anticipo anche sui decreti delegati, si spostavano la sera, una volta al mese alla Pro Loco. Tempi da favola.
Nazzarena Braidotti
Il Triangolo di via Guibert
C’è il Triangolo delle Bermude, quello esoterico di Torino-Praga-Lione… il Triangolo di Renato Zero, ma io, durante la mia infanzia casellese, ebbi la fortuna di avere il mio personalissimo Triangolo magico di via Guibert: il negozio di famiglia – l’oratorio di Santa Maria – la scuola elementare.
Tutto il mio universo di bambino era rappresentato da quella costellazione di edifici.
Nato a Caselle, ma esule sino ai dieci anni, ritornai figliol prodigo nel 1966, quando i miei, appunto, comprarono il negozio storico “davanti alle scuole” dell’ex sindaco Aimo Boot, e a gennaio ‘67 varcai la porta della scuola Collodi al fianco della maestra Berta per entrare, foresto, nella quinta A della maestra Bernard.
Furono solo sei mesi di vita scolastica, prima di acquisire la licenza elementare, ma furono intensissimi e fondanti per il mio futuro.
In quei giorni conobbi Fredo, il bidello che rabboccava i calamai nei banchi e che tutti avrebbero voluto avere come nonno, imparai a trovare i giusti compromessi con Zucca (ci chiamavamo tutti per cognome), il compagno alto alto che la maestra mandava alla lavagna a segnare i “cattivi”, ma soprattutto cementai amicizie profonde che ancora oggi mi accompagnano fedeli.
Prima e dopo le lezioni del Doposcuola si varcava il portone dell’ oratorio per immergersi in un bagno rituale, di polvere e sudore, inseguendo un pallone tra le mura scrostate e asimmetriche del cortile parrocchiale o rincorrendo, con le cerbottane, bande rivali sparacchiando cartocci o ceci secchi.
Che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
La vita umana e il fato!
Così cantava Leopardi ed era, parola più parola meno, ciò che in quei giorni scorreva in ognuno di noi, tra il cuore e la mente.
Infine il ritorno a casa, passando per il negozio dove mia madre, “Marisa dël Despar”, tra affettare due etti di prosciutto e impacchettare una fetta di toma, si faceva in due al banco della cassa per fare la punta alle matite, con la macchinetta a manovella, o a dare le copertine di plastica colorata per i quaderni dei compiti.
Un saluto a papà che riforniva gli scaffali, un pacchetto di biscotti preso al volo dall’espositore, poi di corsa a preparare la tavola per la cena.
All’imbrunire, Carosello e l’ultima avventura di Paperino, letta sotto le lenzuola con la pila.
Così scorreva la vita in quegli anni, nel magico Triangolo di via Guibert.
Alessandro Forno
Momenti belli, vissuti insieme
Si parcheggiava in piazza Boschiassi, non era ancora stata costruita la fontana e c’era l’asfalto, tipico degli Anni ’80.
Tutte le mattine mio padre mi accompagnava con la macchina, aveva la 500 blu. Entravo in questo edificio che aveva un qualcosa di magico. I due scaloni laterali all’ingresso segnavano un po’ il distacco con quello che era un mondo nuovo, che faceva parte dell’età ‘adulta’.
Il primo giorno di scuola, mi ero messa di tutto punto per le grandi occasioni: ero caduta il giorno prima dallo scivolo delle giostre al Prato della Fiera e avevo il volto che era tutto un livido. Mia madre mi aveva fatto due trecce, avevo il grembiule nero, il colletto bianco e la cartella gialla della Best Company, che conservo ancora con tanto affetto perché fu un regalo dei miei nonni paterni.
La maestra Lorenzina Michelatti è stata per me importantissima perché ha sempre guardato tutti noi in modo speciale. Quando andavo a scuola in via Guibert c’era ancora solo un insegnante per classe e quindi il legame che si instaurava con la maestra era un legame forte forte, ma allo stesso tempo di rispetto.
Quando passavano gli aerei ci zittivamo tutti perché non si poteva sentire niente e anche la maestra smetteva di spiegare, per poi riprendere subito dopo il passaggio del velivolo sopra la nostra scuola. Era una cosa naturale, che ci faceva entrare in sintonia con l’aereoporto e gli aerei che per noi Casellesi sono compagni di vita da sempre.
Scrivere di quando facevo le elementari mi ha fatto fare un passo nel tempo bellissimo, e ringrazio Cose Nostre e Elis per l’occasione.
Un altro ricordo era la foto di rito, che mi facevano nonna Pina e Bruno, sul balcone, per immortalare il primo giorno d’asilo, il primo giorno di elementari, eccetera. Una foto sfocata, che poi vedevi una volta portato a sviluppare il rullino. Una foto che ancora oggi porto nel cassetto dei ricordi, così come gli anni con i compagni di classe. Momenti belli, vissuti insieme.
Mara Milanesio
Un sottile fil rouge
1937 -1938: la classe del papà di Antonella Ruo Redda
Quest’anno la campanella non ha suonato per la storica scuola di Via Guibert. Sarà perché anche per me, novella pensionata, è successa la stessa cosa, che un velo di malinconia s’impasta ai miei ricordi di ieri quando bambina salivo le scale della “mia scuola” con la cartella di cuoio a quelli di oggi in cui, dopo 42 anni, lascio il mio ruolo di maestra. Un sottile fil rouge lega il dipanarsi di queste due storie: quello che affiora sono le emozioni vissute, i legami tessuti nel tempo, ciò che resta è quello che si è stati insieme. Per questo le mie reminiscenze di ieri, s’intrecciano con quelle degli amici che ne hanno fatto parte, così che il racconto è a più voci. Ma la scuola ha un profumo? Per Chiara e Milly rimane indelebile quello che emanava all’’apertura del portapenne, dalle matite temperate di fresco, dalla gomma verde e dall’inchiostro delle cartucce della penna Auretta .
E come dimenticare quel luogo tanto ambito ma di rado concesso che era la palestra con il soffitto altissimo e il lineolum verde, dove le voci rimbombavano quando si provavano i canti per Natale o la “festa degli alberi” accompagnati al pianoforte dal maestro Bertella. “I cantori del coro devono scendere in palestra!” urlava perentorio il mitico bidello Nando quando, al sabato mattina, spalancava la porta della classe della maestra Mazzoni. E il dettato? Che emozione quella volta in cui la maestra ci fece scrivere il primo :”Se tu mi dai per un po’ la tua bicicletta, io ti do tre caramelle”. I cuori battevano all’unisono per la paura di sbagliare, così che fu concesso di disegnare, al posto delle parole, una bicicletta e le caramelle. Nulla a paragone dello sconquasso emotivo nei giorni della prova della tubercolina dove 4 punte a marchio timbravano il braccio di ogni scolaro nella speranza che nessun rigonfiamento cutaneo spuntasse nei giorni a seguire. E i compagni di scuola? Io ricordo Maria Teresa, mia compagna di banco in prima elementare, lunghe trecce castane e tanta voglia di giocare con me sotto il banco con le bambole.
I frammenti di ricordi si moltiplicano all’infinito : volti, sorrisi, voci, un puzzle del cuore che invito ogni lettore a voler completare.
Antonella Ruo Redda