Uno schiocco di frusta

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Non possiamo dare torto ai nostri nipoti se durante le vacanze natalizie cresce l’ansia con cui aspettano e si preparano ad accogliere l’arrivo di un nuovo anno. Per loro significa l’avvicinarsi di qualche importante traguardo scolastico e, per i più grandi, forse l’opportunità di un primo lavoro. Per tutti la sicura scoperta di nuove amicizie che in gioventù è legittimo immaginare possano durare per sempre.
Ma vuol dire soprattutto essere autorizzati a ricordare ai genitori quel laconico e comunque promettente “vedremo l’anno prossimo” ricco di attese e di speranze.
Da qualche giorno un altro anno è comparso sulla scena a sostituirne uno vecchio di cui sinceramente nessuno sente la mancanza. Al nuovo arrivato è tuttavia riservato un compito ingrato. Dovrà impegnarsi prima di ogni altra cosa ad aiutare il mondo intero a ritrovare la pace e la serenità , smarrite ormai da tempo nei tragici meandri della guerra che, illudendoci inutilmente, pensavamo non dovesse più fare da colonna sonora agli anni maturi della nostra generazione. Una generazione che, come tutti, fino a ieri ha immaginato e sperato di poter accogliere l’anno nuovo simbolicamente armata soltanto della naturale emozione che sottolinea gli eventi importanti e della inconfessabile preoccupazione di chi ha ormai il futuro migliore alle spalle ed è obbligato ad aggiungere periodicamente il nome di un nuovo farmaco sul calendario vecchia maniera sistemato ai lati della cucina a gas, omaggio del vicino supermercato.
E sullo stesso calendario nel primo mese dell’anno, tra l’elenco delle fiere locali, l’annotazione del compleanno di qualche lontano parente e l’indicazione delle fasi lunari , compare la ricorrenza di Sant’ Antonio Abate, patrono degli agricoltori e protettore degli animali. Ecco allora i vecchi ricordi che il tempo non riesce a impallidire riportare alla nostra mente, su un piatto d’argento o più verosimilmente sistemati in un capiente cesto di vimini, i frutti della terra che in segno di ringraziamento addobbavano l’altare nel corso della speciale funzione religiosa che in quei giorni d’inverno, quando ancora scendeva la neve, proseguiva all’esterno sul sagrato della chiesa con la particolare benedizione dei tanti animali e degli scarsi mezzi agricoli, poiché i cavalli, ancora incontrastati mezzi di locomozione agricola, non erano soltanto dotazione dei trattori. Era la festa di agricoltori e allevatori ai quali il lavoro nei campi e nelle cascine, indiscusso e faticoso patrimonio di un paese ancora in bilico tra fabbrica e campagna, riusciva ad indurire, anche ai più giovani, connotati e sentimenti . A differenza di oggi si protraeva fino al martedì sera quando in compagnia di famigliari e simpatizzanti si concludeva con l’abituale incontro presso la Caccia Reale. Nel vecchio e glorioso ristorante al centro di una calda e movimentata atmosfera, esaltata dal suono incessante e approssimativo di fisarmonica e clarino reclutati per l’occasione e pronti ad accompagnare i non meno incerti passi di danza di alcuni tra i più coraggiosi commensali, i celebri bolliti di Notu Suc , cuoco di professione e macellaio aggiunto alla corte di Pierino Cubito, finivano la loro corsa annegati tra sughi e barbera. La bella Rosina, figlia del titolare, provvedeva ad avvicendarli senza sosta fino a quando un immaginario schiocco di frusta segnava il gran finale della serata: l’aggiudicazione all’incanto del simbolo della festa. Si trattava di una frusta, appunto, dal manico finemente tornito e decorato su cui avevano indugiato a lungo abilità e fantasia di un mestiere che a Caselle, in fondo alla via centrale, nel cortile di Orla, Giuseppe Ferrero, sellaio, stava abbandonando per consegnarsi insieme alla famiglia a una nuova fortunata attività dall’altra parte della strada.
Dietro ad uno dei tavoli imbanditi per la festa ancora in corso, su cui le bottiglie vuote rappresentavano i facili trofei della serata, la voce forte e convincente dell’improvvisato e appassionato banditore, mescolando il piemontese di tutti i giorni allo scarso italiano disponibile, apriva la contesa sempre strenuamente combattuta.
Quella frusta, o meglio, quel fuet, come familiarmente veniva chiamata da queste parti quasi ad evocarne la fulminea musicalità dello schiocco, si trova ormai confinato nei ricordi di una festa che oggi pur rispettandone in pieno lo spirito si esaurisce nello spazio di una domenica.
Ci piacerebbe poterne disporre soltanto per un attimo. Per consegnarlo nelle mani di questo anno ancora agli esordi, al quale oltre al gravoso compito già assegnatogli, vorremmo chiedere, tra l’altro, di trattenere a casa i custodi della nostra salute , di non impoverire ulteriormente chi non per scelta è già povero e magari di consentire alle tante “Giulia” , nostre figlie, nostre nipoti, di poter sognare e vivere una vita serena, lontana dagli incubi dei giorni recenti. In fondo, se vuole, gli basta poco: uno schiocco di frusta.

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