Sul crinale dell’anno passato anche il Sudafrica s’è unito al coro dei “genocidi inventati”, reclamando capricciosamente sanzioni per Israele alla Corte internazionale di giustizia; mostrando nel frattempo simpatie per Hamas. L’ostilità e finanche l’odio verso Israele è roba di lungo corso in Sudafrica che oggi ci aggiunge l’appartenenza ai “Brics” (Brasile, Russia, Cina, India e Sudafrica per l’appunto) e quindi vede dietro l’obiettivo politico israeliano anche quello statunitense, suggeritogli dai soci di maggioranza russo-cinesi. Se Israele compie azioni di genocidio, anche l’America è in torto e magari lo è pure in Ucraina, oppure a Taiwan qualora si verificasse la collisione con la Repubblica Popolare. Ai sensi dell’articolo II dalla Convenzione del 1948, genocidio significa commettere reati e crimini «con l’intento di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale», come cita la Convenzione del 1948. Proprio ciò che ha tentato di fare Hamas il 7 ottobre del 2023 e come ha chiaramente dichiarato nel proprio manifesto di fondazione del 1988. Non ha importanza se la Corte rigetterà le accuse poiché fra l’altro serviranno anni per giudicare e dare sentenza. Ciò che conta davvero nell’agone internazionale è l’azione politica delegittimante d’una nazione a discapito d’un’altra: «È qui che emerge la debolezza dell’accusa del Sudafrica. Ai sensi del diritto internazionale, secondo la maggior parte degli esperti, non ci sono gli estremi per parlare di genocidio a Gaza – per quanto orrore possano fare le azioni compiute dall’esercito israeliano e ordinate dal governo Netanyahu. Il Sudafrica ovviamente lo sa. La sua è un’accusa politica, che ha come obiettivo quello di appiccicare l’etichetta di “genocida” a Israele, su tutti i media del mondo. Obiettivo raggiunto», chiosa Pennisi di «Aspen Institute». Ancora una volta il diritto internazionale umanitario si dimostra terreno fertile per i banditi della Terra, al contrario di quanto si vorrebbe: cioè un freno alla violenza nei conflitti armati, piuttosto che all’azione predatoria di determinati attori statuali e imperiali. L’America imperiale che mostra – almeno sul piano politico, ma soprattutto su quello culturale – i segni del tempo, vede dal novembre 2023 un aspro scontro interno nelle e per le università: storicamente fucine di leaders e grandi amministratori nazionali. Questo scontro ha soltanto in superficie la ragione di Palestina piuttosto che d’Israele come parso dal racconto tele-giornalistico. Al di sotto si cela, almeno ipoteticamente, la contesa del potere, ma soprattutto: la struttura imperiale americana. All’inizio dello scorso dicembre è stato convocato un incontro fra la commissione per l’Istruzione della Camera e i vertici delle tre università statunitensi più importanti: Harvard, Mit e Penn State University, al fine di chiarire il loro pensiero sulle manifestazioni inneggianti, fra l’altro, all’Olocausto. «Vedere in palese difficoltà i vertici di quelle università capita di rado», si legge su Limes. Questo perché i tre atenei, al pari di molti altri, dagli Anni Settanta sono progressivamente diventati vittime di loro stessi, del loro stesso racconto: libertà=ribellione=deresponsabilizzazione assoluta; ma dove i contorni e i limiti? Per la prima volta nella Storia si sta assistendo al dubbio accademico-istituzionale sull’azione americana, sulla struttura, dall’interno. A gennaio la rettrice di Harvard Claudine Gay è stata rimossa dall’incarico, mentre già dal mese precedente, i grandi finanziatori delle più prestigiose università americane hanno minacciato tagli ai fondi: il che sarebbe una catastrofe per gli atenei poiché le vertiginose rette non bastano. La posta in gioco, comunque, è ancor più alta di così: come accennato per la prima volta nella storia americana in ballo c’è «l’assimilazione», ovvero divenire tutti americani tramite pedagogia nazionale, indipendentemente dalla propria cultura e religione d’origine. Ciò è indispensabile per un impero al fine d’evitare “quinte colonne” interne in caso di guerra. Si vedrà.
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