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martedì, Ottobre 15, 2024

    Le madri divine

    La sacralità riconosciuta alle figure femminili nel mondo antico è documentata da una vasta serie di testimonianze letterarie, epigrafiche e leggendarie. Gli studi filologici basati soprattutto sulle due prime fonti indicate, hanno consentito di porre in rilievo la diffusione di molteplici forme di culto, direte sia a divinità più note, che ad altre anonime, in cui si collocano le cosiddette matres. Quest’ultime sono particolarmente interessanti per la prospettiva proposta in queste pagine, poiché conservano un’eco sacrale estesasi, attraverso i linguaggi del mito, ben oltre il periodo più antico della loro diffusione.
    Si consideri che in queste figure riverberano tracce di una tradizione cultuale molto antica e correlabile all’archetipo della Grande Madre. Quindi una figura primigenia, indicata come divinità dispensatrice di fertilità: è in tal senso significativo che il termine nonna in alcune lingue corrisponda a gran madre: grand-mère (francese), grandmother (inglese), grass muther (tedesco).
    Nell’area pedemontana occidentale le tracce di culti dedicati alle suddette figure femminili sono documentati da una serie di materiali epigrafici e provenienti dalla cultura celtica e soprattutto romana, spesso con formule sincretistiche.
    Le definizioni che ricorrono con maggiore frequenza sono: Matres, Mater, Matronae, Iunones; sull’origine del culto sono sostanzialmente due interpretazioni: quella che ne riconosce le radici nella cultura celtica e quella che invece la individua nella religione germanica.
    Si ritiene comunque che fu la cultura celtica a portare questo culto di origini indoeuropea nell’Italia settentrionale, dove oggi si contano circa un centinaio di iscrizioni in cui, anche se le donne sono chiamate con nomi diversi, il nucleo centrale della pratica cultuale sembra invariato.
    Quasi tutte le Matres sono raffigurate in gruppo (in genere tre), sedute oppure legate tra loro in un sorta di danza con le braccia incrociate, così da formare una sorta di catena.
    Anche se non abbiamo documenti certi che comprovino l’esistenza di templi dedicate a queste figure femminili, alcune iscrizioni rivenute lo lascerebbero supporre. Inoltre a queste figure di triplice aspetto erano attribuiti epiteti collegati a nomi di località, fatto questo che potrebbe suggerire la possibilità che quei luoghi fossero sotto la protezione di quelle divinità.
    Un caso interessante proviene dall’area di Foresto, in Valle di Susa, dove vennero rinvenute cinque lapidi dedicate alle Matres, tra le quali quella di Tito Vindonio Ierano (datata tra il I e il II secolo d.C.), in cui è espressa la volontà di restaurare un tempio ormai vetusto dedicato alle divinis Matronis, forse situato all’interno dell’orrido naturale scavato dal torrente.
    L’appellativo “divina” pone in evidenza la volontà di riconoscere alle figure femminili lì celebrate, qualcosa di più del solo ruolo di genius loci, ma un accostamento alla dimensione della divinità. Nella stessa area sono state rinvenute altre due dediche alle Matronae riferite a un edicola compitale della quale però non sono state rinvenute le tracce.
    Vi è forse un’eco di questo antico culto pagano nella tradizione locale che indicava l’orrido di Foresto come uno dei siti in cui le streghe si davano convegno per celebrare il diavolo nel gorgo del sabba?
    Infatti, non è raro trovare riferimenti alle streghe – nelle leggende e nei toponimi soprattutto – in aree in cui riemergono tracce di culti pagani.
    Un’altra importante testimonianza sul culto delle Matres – Matronae, è costituita dal cippo di Avigliana – sempre in Valle di Susa e nei pressi della località anticamente chiamata Ocelum e che Cesare, pone nel “punto estremo della Gallia Citeriore” – sul quale sono scolpite cinque donne con braccia incrociate e forse raffigurate in un movimento danzante. Sui lati del cippo sono inoltre scolpiti un orcio e una patera, in alto la scritta:
    MATRONIS TI.IULIUS PRISCI L. ACESTES.
    Altre dediche alle sacre donne sono state rinvenute nel territorio compreso tra Vercelli e Novara: nella quasi totalità dei casi, queste opere risultano essere degli ex voto.
    Due frammenti provenienti da Borgo San Dalmazzo (Cuneo) rivelano connessioni culturali con altri reperti analoghi dell’area francese delle Alpi Marittime.
    Un importante contributo per avere un’idea della diffusione del culto, potrebbe giungere dal Colle del Monginevro, dove si ritiene vi fosse un’area di culto dedicata alle Matres, significativamente nella toponomastica romana quel colle era indicato come Mons Matronae.
    Da parte di una serie di studiosi del folklore vi era la tendenza a suggerire una sorta di continuità tra le Matres e le figure femminili ritenute protettive della tradizione popolare: nelle Alpi orientali, per esempio, si suggeriscono avvicinamenti alle Gannes, mitiche creature contese tra l’archetipo della fata e il modello mitico della donna selvaggia.
    Il legame con la fata è interessante, anche se guardato con una certa diffidenza da una parte degli specialisti: la metamorfosi avrebbe consentito una continuità che possiamo suggerire come ipotesi di lavoro, ma difficile da consolidare sulla base delle sole informazioni disponibili.
    Certamente rilevante il legame con la fertilità che queste figure propongono. Le fate della tradizione popolare, che molto devono al modello letterario della fiaba colta, sono spesso collocate in luoghi caratterizzati da prerogative geomorfologiche offrono un territorio fertile al mito: grotte, ripari sotto roccia e fonti d’acqua sono infatti dimore tipiche di queste creature dell’immaginario.
    Per esempio, secondo la tradizione popolare piemontese, tracce sarebbero reperibili sulla balma di Vonzo, nella Val Grande di Lanzo, che si racconta fu rimossa dalle fate in volo, ma il diavolo si oppose e alla fine la balma precipitò dove ancora si trova, con tanto di segni lasciati dalle mitiche creature sulla superficie litica.
    Sopra Arona una balma sarebbe l’accesso per il regno segreto delle creature fatate: si aprirebbe solo una volta all’anno, lasciando intravedere la via per quel meraviglioso mondo.
    Cosiddetti “buchi delle fate” sono presenti in varie località in Valle d’Aosta; una tra le più note è quella localizzata vicino a Rapy presso Verrayes in un’area selvaggia e desolata detta ghiacciaio di Diemoz, conosciuta come Borna de la faye.
    Alcuni “buchi delle fate” sono indicati anche sul monte Civrari in Val di Viù. Tra l’altro, a Viù si trova la singolare “Pietra delle Madri”, utilizzata per secoli come base di un torchio per la spremitura delle noci e posta in località Mulini Ninìn, in frazione Tuberghengo. Il bassorilievo rappresenterebbe appunto le tre Matres, che è stato datato tra il III-II secolo a.C.
    Il termine fata deriva dal latino antico faunoe o fatuoe che, nella mitologia pagana, indicava le compagne dei fauni, creature dotate del potere di predire il futuro e di intervenire magicamente per variarne lo svolgersi. La discendenza da divinità e figure mitiche pagane può essere individuata, per esempio, nelle ninfe, ma anche nelle numerose creature legate alle fonti e ai riti di fertilità.
    Secondo la tradizione una fata è sempre presente quando nasce un bambino, e gli conferisce doni particolari, doti e talento, ma soprattutto sarebbe in grado di influenzarne l’esistenza futura.
    Per l’occasione, nel mondo celtico, le future mamme appendevano dei nastri colorati nei pressi delle fonti, alberi e simulacri dedicati alle Matres: figure che sono sfumate nelle fate, ma anche nella più dogmatica Vergine Maria. Un singolare esempio della sopravvivenza di questa tradizione la rintracciamo nella cappella della Madonna della Neve di Vazon, una frazione di Oulx, posta nei pressi della congiunzione tra le importati strade del Monginevro e del Moncenisio. Sulla statua della Vergine custodita in questa cappella, le giovani spose locali ponevano dei nastri colorati con l’intento di propiziarsi la protezione della Madonna in vista di futuri parti.
    Ciò non significa che vi sia stata una diretta laicizzazione tendente a trasformare la Matrona celtica nella Vergine Maria, ma è innegabile, quantomeno, una continuità cultuale; indicativo, per una semplice riflessione, il presunto passaggio, nella religiosità, soprattutto in area elvetica, della triade delle Matronae al modello cristiano delle Tre Marie.
    Ricordiamo inoltre che in alcune epigrafi romane del Piemonte, alle Matres Matronae è associato il nome di Diana; nelle fonti epigrafiche è anche presente l’accostamento Hera/Diana.
    Nell’insieme l’affermazione del culto delle Matres in area pedemontana può essere ritenuto l’effetto della “mediazione dei celti, calati nella Pianura padana fin dal V secolo a.C.” e in seguito alla romanizzazione si sarebbero affermati i termini Matronae e Iunones, ritenuti sostanzialmente affini. Il secondo dei due appellativi, “così evidentemente legato al nome della dea Giunone, che tanta parte aveva nella religione dei romani, null’altro sarebbe che l’interpretatio romana di divinità già venerate nell’Italia settentrionale prima della conquista romana. Le dediche alle sole Iunones sarebbero dunque da considerare analoghe a quelle alle Matronae nell’ottica della rapida romanizzazione della Cisalpina” (F. Landucci Gattinoni, Un culto celtico nella Gallia Cisalpina, Milano 1986, pag. 19).
    Come indicato in precedenza, non dobbiamo dimenticare che alcune figure mitiche femminili presenti nelle leggende, così come nelle fiabe, potrebbero essere sopravvivenze di creature pagane: per esempio, “nella Francia antica, infatti, le Parche – venerate come Matres Parcae, raffigurate sedute in trono – erano dette Fate” (L. Verdi, Dalla grande madre alla fata delle fiabe, in T. Giani Gallino, a cura, Le grandi madri, Milano 1989, pag. 172).

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