Dire che è stato un periodo complicato, quello che ci ha condotto qui e ora, è persino un eufemismo.
Abbiamo rischiato l’osso del collo e ascoltato tutto e il contrario di tutto, in una ridda cacofonica che ci ha confusi, storditi e stufati.
Anche se tutti giuravano e spergiuravano che era per il bene nostro e della patria tutta, l’impressione che si aveva stando su questa riva era quella che conduceva ad un’unica certezza: il Paese reale, coi suoi problemi, era da tutt’altra parte.
E’ stato un periodo coniugato unicamente all’indicativo, con un periodare senza dubbi e incertezze. Ogni frase una sentenza.
Ed è qui che più che mai ho sentito il bisogno di evocare il ritorno al e del congiuntivo.
Desueto, inusitato, ahimè, sconosciuto a frange sempre più cospicue della nostra gente, il congiuntivo non è solo un modo verbale messo lì a trabocchetto dalla nostra grammatica, è molto di più: è il modo più democratico che esista perché non trincia ma, partendo dal dubbio che ogni cosa o accadimento possa essere anche osservato da un altro punto di vista, congiunge e condivide. In molte frasi non istilla dubbi, sottolinea piuttosto una possibilità o una probabilità, rispettando il pensiero altrui.
Nessuno, fino a che vigerà questa Costituzione, può e deve – questo sì fortemente “indicativo” – permettersi di poter dire di incarnare lo Stato, unico e solo, menando a scudo uno come Calamandrei che mai e poi mai avrebbe detto una sciocchezza simile.
Mi piacerebbe appunto che venisse riesumato il congiuntivo, e per smetterla di sentire strafalcioni che in altri tempi avrebbero fatto arrossire anche la più comprensiva della maestre, e per avere qualcosa che, vivaddio, smetta d’essere divisivo e torni a unirci nell’interesse e nel bene comune.
Da troppo l’ignoranza ha preso a fare curriculum ed è facile vellicarla portando in superficie ciò che la pancia vuole sentirsi dire, ciò che spesso fa il paio con gli istinti più bassi e retrivi.
Non è accusando l’altro che possiamo trovare una via comune; non è etichettandolo che possiamo sperare di venir via dalla mota in cui siamo.
Come in ogni accadimento, c’è una causa e c’è un effetto; ad ogni azione corrisponde una reazione; un vuoto viene sempre colmato e, ripeto, non è scegliendo un bersaglio per le invettive che possiamo garantirci futuro.
Per troppo la demagogia ha coperto il poco o nulla che è stato fatto e penso sia più che auspicabile un cambio di passo.
Comunque sia, il tempo che verrà dovrebbe essere speso lontano da frasi fatte e a effetto, perché con queste si fa poca strada e, soprattutto, è bene che ci si renda conto una volta per tutte che i problemi non si possono risolvere vendendo ipotetiche ipotesi.
Aizzare la gente, farle credere lucciole per lanterne è estremamente pericoloso.
Ecco perché ai troppi discorsi preferisco ciò che ammiro ogni giorno nel nostro piccolo grande mondo dell’associazionismo e del volontariato, che non mi stancherò mai di dirlo, è la vera spina dorsale della nazione.
Occorre che il nostro Paese prenda esempio dalla sua parte più sana, quella che fa e poco dice: quella che incarna il vero spirito patriottico italiano. La conclusione la lascio ad una frase con la quale ha esordito Silvana Menicali, la nostra nuova presidente e che più o meno suonava così: “Il non detto o detto sgarbatamente genera macigni, i macigni ergono muri e i muri dividono”.
E’ una frase che mi sembra eccellente per fotografare tutto ciò di cui abbiamo e non abbiamo bisogno. Un modo congiuntivo di essere.