Mettiamola così: pur non essendo affetto da catastrofismo cronico, notizia dopo notizia – e quasi mai una buona – sento di appartenere ad un altro mondo. Una roba che, giorno dopo giorno, si sta estinguendo.
Non so voi, ma tutta l’istantaneità dei social mi sta soffocando. Non c’è mai tempo di valutare l’aspettualità d’un’azione, di privilegiare il “come”, piuttosto del “quando”.
Tutto viene ingurgitato in un prendere bulimico, in modo acritico e totale, attraverso una banalizzazione feroce.
L’immagine di un vicepremier semi-svenuto dopo intuibile crapula, legata ad un addio social con tanto di frase da “bacio Perugina”, non desta praticamente sdegno. Le castronerie paiono corredo naturale di più d’un ministro, tanto che ci tocca incredibilmente rimpiangere alcuni di quelli che abbiamo deprecato in passato. Pare non esserci più obbligo alcuno per chi tiene tra le mani le sorti della Repubblica.
Non c’è onta che tenga. Siamo sotto anestesia, incapaci di percepire il “come”?
Passano sotto-traccia fatti che dovrebbero più che inquietare, come il provvedimento preso una decina di giorni fa dalla Regione Lombardia, la quale proprio nell’anno in cui viene ricordata l’emanazione delle leggi razziali, ha pensato bene di porre l’accento e dei distinguo su chi proviene dall’altrove ed è d’un altro colore.
Sarà che come Albert Einstein, alla voce “razza”, non potrei che denunciare di appartenere a quella umana, ma il vento che soffia, e che ogni giorno pare alimentarsi sempre di più, non riesco a liquidarlo come un ineluttabile specchio dei tempi attuali: aborro ogni forma di razzismo e di limitazione delle libertà personali, e sento più che mai il pericolo vaticinato da Primo Levi: “Ciò che è accaduto può ritornare, le coscienze possono nuovamente essere sedotte ed oscurate: anche le nostre”. A sedurre è un’ignoranza lata e specifica, corroborata dal fatto che la storia recente non viene praticamente più insegnata. E’un orpello, un bullone fallato nell’economia scolastica, come se non fosse necessario conoscere il passato per capire il presente.
L’istantaneità ci appaga; riempie pance e cuori, e tanto ci basta. Il “come” impone riflessioni e per questo non pare esserci tempo.
C’è sempre la segreta speranza che qualcosa possa mutare e che non debba essere una “provvida sventura” di manzoniana memoria ad aprirci gli occhi.
Per fortuna, e almeno qui troviamo una buona notizia, ci sono le comunità locali a rinverdire un po’ di fiducia nel domani.
Come leggerete qui accanto e all’interno del giornale, quest’anno il premio riservato al “Casellese dell’anno” è andato ai bimbi della sezione G della scuola d’Infanzia “Andersen” e questo è un bel messaggio.
Da noi esiste una “buona scuola” non solo nelle scartoffie: esiste tra i banchi perché, nonostante mucillaggini burocratiche e stipendi fermi da vent’anni, abbiamo tante insegnanti che continuano a credere e ad amare il loro lavoro, supportate da una dirigenza che non dimentica che tra i suoi innumerevoli compiti c’è un aspetto didattico da coltivare e privilegiare.
Cosa significhi aver dato ai meravigliosi bimbi il premio, va da sé. Oltre ai tanti premi, ottenuti che andavano sicuramente riconosciuti, i nuovi “Casellesi dell’anno” portano in dote messaggi che devono essere colti: sono il sale della terra e la luce del mondo che verrà; sono stati spinti ad adottare il “monumento all’emigrante” perché portassero e avessero contezza di ciò che gl’Italiani sono stati e a capire perché oggi si debbano aprire le braccia per accogliere e non per respingere.
I bimbi fanno il girotondo tenendosi per mano, uniscono coi loro occhi innocenti: loro sanno come si fa.
La stagione abietta delle differenze la lasciano a noi che inseguiamo il tempo. Senza capirlo.