Nell’Europa all’indomani della prima guerra mondiale le cause della rivoluzione o della controrivoluzione presero il sopravvento sulle politiche riformiste e di progresso sociale. In molti paesi la guerra fece da carica detonante per la nascita e lo sviluppo di estremismi di destra o di sinistra. Gli stati liberali e le repubbliche democratiche vacillarono di fronte alle conseguenze socioeconomiche provocate dal conflitto. Anche in Inghilterra, dove i disoccupati raggiunsero il milione, il comunismo diventò l’ideologia di chi aveva smarrito l’illusione alla prosperità.
La Russia fu, tra i paesi che parteciparono al conflitto, quello che soffrì maggiormente. Con la sconfitta, la guerra civile e la rivoluzione, la Russia venne allontanata in modo definitivo dall’Europa, divenendo un’entità estranea sotto il profilo sociopolitico. Il livello produttivo dell’industria si ridusse a meno di un terzo rispetto al valore già basso del periodo prebellico. La morte di Lenin nel 1924 e la successiva leadership di Stalin sancirono l’inizio di un nuovo regime autoritario di matrice comunista sorto dalle ceneri della guerra.
In una Germania profondamente ferita dalla sconfitta lo spirito di rivalsa venne incanalato nella controrivoluzione del partito nazionalsocialista dei lavoratori, il cui futuro capo, Adolf Hitler, si proclamò il fautore della riscossa nazionale e il difensore dell’interesse tedesco contro la minaccia bolscevica. La crisi e la forte crescita dell’inflazione generarono un clima di tensione sociale e di protesta che spinse a generare alcuni capri espiatori, i comunisti, gli ebrei, il trattato di Versailles e i rappresentati della Repubblica di Weimar. Nel 1923 la situazione precipitò drasticamente a causa del crollo del marco tedesco e dell’occupazione francese della Ruhr.
Con il trattato di Saint-Germain del 10 settembre 1919 l’impero austro-ungarico non esistette più. L’Ungheria divenne una repubblica comunista guidata da un ex prigioniero di guerra proveniente dal fronte russo. Anche la Cecoslovacchia e la Jugoslavia proclamarono la loro indipendenza. Infine alcuni territori vennero ceduti ad altre nazioni, come il Tirolo all’Italia, la Galizia e la Slesia alla Polonia e la Bucovina alla Romania. L’Austria venne ridotta ad uno stato in cui la popolazione era esclusivamente di origine tedesca e venne privata di uno sbocco in mare. Negli anni successivi al conflitto la politica interna austriaca si impegnò nella risoluzione della profonda crisi finanziaria che colpì il Paese e nel ricompattare i contrasti politici che videro da una parte le correnti che auspicavano alla rifondazione di un stato austriaco indipendente e dall’altra coloro che erano favorevoli all’Anschluss, l’unione con la Germania.
Tra i vincitori del conflitto, l’Italia fu lo stato che ne uscì in maniera peggiore sia in termini economici sia in termini sociali. Lo sforzo compiuto nei quattro anni di guerra era stato imponente, le spese militari crebbero di dieci volte dal 1915 al 1918. Il disavanzo della bilancia commerciale raggiunse cifre eccezionali, i prezzi aumentarono di circa quattro volte e lo stesso Luigi Einaudi calcolò che nell’ultimo anno di guerra si esaurirono quasi il 40% delle risorse economiche del paese. Un pesante debito nei confronti dell’estero, l’inflazione galoppante e le difficoltà nella riconversione dell’industria di guerra a quella civile si sommarono agli antichi mali italiani e che la guerra aveva accentuato, come il divario tra il Nord e il Sud del Paese e gli squilibri dell’agricoltura. Nel settembre 1920 l’Italia venne paralizzata da una serie di scioperi da parte degli operai. La borghesia industriale non aveva intenzione di integrare la classe operaia nel processo di ammodernamento del paese. Gli imprenditori non riconobbero al proletariato urbano un proprio ruolo autonomo e un peso economico all’interno della società civile e chiesero ai lavoratori parsimonia, ordine e disciplina. I fermenti politici della classe operaia non vennero placati neppure con l’abbassamento ad otto ore dei turni di lavoro e con qualche misura di aumento salariale. Anche in Italia la prospettiva di una rivoluzione socialista della società a breve scadenza venne accolta da alcune classi come l’unica strada possibile da percorrere verso un miglioramento della propria condizione socioeconomica.
La guerra aveva scosso anche gli equilibri nella classe media, la quale aveva contribuito in modo importante al conflitto sia in termini economici sia in termini umani. Molti artigiani ritornando alla vita normale videro il loro risparmi assottigliarsi a causa della svalutazione della lira e ad un carico fiscale a favore dello stato sempre più pressante. La decadenza della classe media fu una delle componenti della crisi dello stato liberale e della conseguente affermazione del regime fascista.
L’insuccesso diplomatico sull’annessione di Fiume venne cavalcata dai nazionalisti i quali crearono il mito della vittoria mutilata. L’Italia uscì dal conflitto frustrata nei suoi sogni di grandezza internazionale ed esausta a livello economico. L’avvento del regime fascista nel 1922 fu la risposta controrivoluzionaria a questo malessere. Fin dall’immediato dopoguerra il governo liberale tollerò la presenza di squadre di destra, le “camicie nere”, con l’obiettivo di contenere l’espansione delle forze di sinistra e il dilagare della loro idea di rivoluzione rossa ispirata a quella avvenuta in Russia nel 1917.