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martedì, Ottobre 15, 2024

    Istria e Dalmazia: gli italiani di confine

    I contatti tra l’Istria e la Dalmazia con la nostra penisola iniziarono già ai tempi di Roma, quando Giulio Cesare fondò Trieste (Tergeste), le colonie di Pola (Pietas Julia), Parenzo (Julia Parentium) e continuarono con Augusto il quale istituì la Regio X Venetia et Histria. Le testimonianze del dominio di Roma in quei luoghi le possiamo ammirare ancora oggi nel teatro di Trieste, nell’Arena di Pola, nell’arco di Fiume, nel Foro di Zara e nel palazzo di Diocleziano a Spalato. Con la caduta dell’Impero romano d’Occidente nel 476 d.C. le popolazioni romanizzate dell’Istria e della Dalmazia si dovettero confrontare con le tribù degli Avari e degli Slavi. Insediamenti di popoli di origine slava vennero promossi da Carlo Magno a partire dalla sua conquista avvenuta a fine VIII secolo. Dal IX al XVIII sulle città costiere dell’Istria, nelle isole del Quarnaro e sulle coste della Dalmazia si impose l’egemonia della Repubblica di Venezia e dal 1150 il Doge assunse il titolo di Totius Istriae inclitus dominator. Fino al XIX secolo gli abitanti di questi territori non avevano una coscienza condivisa di un’identità nazionale ma si definivano istriani, dalmati, di origine romanza o slava. A livello linguistico e culturale le città sulla costa erano di prevalenza romanzo-italiche mentre quelle dell’entroterra in prevalenza slave. Fino all’Ottocento le due etnie convissero pacificamente ma è con i moti rivoluzionari del 1848, conosciuti anche come i moti della primavera dei popoli, che il sentimento di appartenenza nazionale si estense alla maggior parte della popolazione. Tra il 1848 e il 1918 l’Impero Asburgico favorì la crescita degli slavi al fine di contrastare l’irredentismo italiano, cresciuto soprattutto dopo la Terza guerra di indipendenza del 1866 che si concluse con la cessione del Lombardo-Veneto al neocostituito Regno d’Italia.

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    Dopo la prima guerra mondiale l’Italia occupò militarmente la Venezia Giulia e la Dalmazia secondo quanto era già stato stabilito nel trattato di Londra. Negli anni a seguire i confini tra l’Italia e il nuovo stato Jugoslavo furono oggetto di una intensa e conflittuale azione diplomatica tra i due paesi. L’esperienza di Fiume fu esemplificativa della confusione e della conflittualità della situazione in quelle regioni del nordest. I trattati di Saint-Germain e di Rapallo privarono l’Italia della Dalmazia (tranne Zara e alcune isole) sulla base del principio della nazionalità. Il trattato di Rapallo sancì la nascita dello stato libero di Fiume, città che poi venne annessa all’Italia nel 1924 con il trattato di Roma. Con l’avvento del fascismo si operò una vera e propria operazione di italianizzazione di tutta l’area tramite l’introduzione di leggi e decreti regi. Questa assimilazione forzata cancellò quell’autonomia culturale e linguistica che le popolazioni slave avevano potuto godere durante la dominazione degli Asburgo.

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    Con la seconda guerra mondiale la situazione di quelle regioni peggiorò drasticamente con episodi di violenta repressione da parte italiana. Un esempio emblematico nella sua drammaticità fu quello che accadde il 12 luglio 1942 nel villaggio di Podhum dove per rappresaglia tutti gli uomini tra i 16 e i 64 anni vennero fucilati per ordine del prefetto da militari italiani. Il resto della popolazione fu deportata nei campi di internamento e le loro abitazioni vennero date fuoco. Con l’armistizio del 1943 ebbe iniziò quel periodo che passò alla storia come i massacri delle foibe e che viene commemorato il 10 febbraio di ogni anno, nel Giorno del ricordo, istituito con una legge dello Stato nel 2004 in memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata. L’Armata Popolare Jugoslava eseguì numerosi eccidi di oppositori politici e cittadini italiani in tutta la zona, da Trieste a Gorizia, da Fiume a Pola, i cui corpi vennero spesso gettati nelle foibe, ovvero nelle voragini aperte lungo il territorio carsico. All’intensa campagna di epurazione susseguì l’esodo degli italiani di Istria, di Fiume e della Dalmazia e che coinvolse tra le 250.000 e le 350.000 persone. Questa emigrazione forzata durò fino al 1960 e provocò lo spopolamento di quei territori della maggior parte dei cittadini di etnia e di lingua italiana.

    La città di Trieste, che nel 1947 era stata suddivisa in due aree di controllo distinte, la zona A sotto il Governo Militare Alleato e la zona B in mano all’esercito jugoslavo, rimase sotto l’amministrazione angloamericana fino al 26 ottobre 1954 quando poi ritornò ad essere italiana. La disgregazione della Jugoslavia nel 1992 comportò la suddivisione dell’Istria in due parti; quella settentrionale delimitata dal fiume Dragogna sotto il dominio sloveno; quella meridionale insieme al Quarnaro e alla Dalmazia invece sotto quello croato.

    Nel corso degli ultimi decenni, perciò, la comunità italiana in Istria e in Dalmazia si è talmente ridimensionata da diventare equiparabile a qualsiasi altra minoranza presente in quelle zone. Nell’immaginario collettivo della maggioranza di origine slava il punto di riferimento a livello sociopolitico rimane ancora oggi il modello mitteleuropeo-asburgico, un impero sovrannazionale di prestigio internazionale che riusciva a garantire al proprio interno l’autonomia delle singole regioni, tutelando soprattutto l’etnia slava.

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