La “marcia su Roma” è passata alla storia come l’inizio del fascismo in Italia. Questo avvenimento, che è stato talvolta ingigantito nel suo svolgimento, è stato il prodotto di una serie di cause che aveva portato al disfacimento dello stato liberale. Innanzitutto le difficoltà del dopoguerra nel nostro paese furono più grandi rispetto agli altri vincitori del conflitto. Le risorse del paese erano prosciugate, l’economia stentava a ri-decollare e fu lenta la riconversione dell’industria di guerra a quella al tempo di pace. Inoltre in Italia il processo di democratizzazione della società era appena cominciato; infatti fu solo nel 1913 che venne approvato il suffragio universale maschile. La vecchia classe politica di ispirazione liberale era stata una delle promotrici della partecipazione alla guerra e per questo motivo venne considerata al termine del conflitto come la principale responsabile della situazione in cui versava l’Italia. Ad aggravare la posizione dei parlamentari liberali fu la loro incapacità di sapersi relazionare con le masse, soprattutto con quelle agrarie e con il nuovo ceto del proletariato urbano che si stava sviluppando grazie alle prime industrie. Nacquero così nuove forze politiche in grado di dialogare con loro e a mobilitarle. I cattolici si organizzarono nel Partito popolare italiano di Don Sturzo mentre il partito socialista vide crescere enormemente le proprie fila sull’onda della rivoluzione bolscevica del 1917.
Mussolini, cacciato dal partito socialista alla fine del 1914 per il suo sostegno al fronte interventista, nel dopoguerra si presentò come uno dei più accesi portavoce del mito della “vittoria mutilata” e nel 1919 fondò i fasci di combattimento. Questo movimento dal carattere innovativo ma di definizione ancora poca chiara si collocò in origine a sinistra e in antagonismo al partito socialista. I membri, soprattutto ex sindacalisti rivoluzionari, ex repubblicani e reduci di guerra, si professavano a favore della repubblica ed erano anche ferventi nazionalisti. Una caratteristica distintiva dei fasci fu la loro aggressività che si manifestò fin da subito con l’assedio della sede dell’Avanti! a Milano nell’aprile 1919. L’apice della lotta armata dello squadrismo si ebbe tra la fine del 1920 e l’inizio del 1921 quando il fascismo attraversò una fase di grande cambiamento, militarizzandosi, e che viene ricordata come fascismo agrario. Tra il 1919 e il 1920, nel cosiddetto biennio rosso, l’Italia divenne il centro di una serie di tumulti e scioperi contro il carovita provocato dall’aumento sconsiderato del prezzo del grano. I lavoratori agricoli della Pianura Padana si organizzarono in leghe socialiste e cattoliche. Nel frattempo nel centro sud del paese i contadini iniziarono ad occupare le terre incolte.
Le elezioni del novembre 1919 sancirono la fine della vecchia classe politica liberale. I suoi rappresentanti non furono in grado di costituire una struttura da partiti di massa. I socialisti ottennero oltre il 30% dei voti seguiti dai popolari che raggiunsero il 20% delle preferenze. Al potere ritornò Giolitti. La lotta politica si spostò dal parlamento alle piazze e nelle fabbriche. L’occupazione delle fabbriche a partire da settembre del 1920 fu un evento che venne vissuto dai lavoratori come l’inizio di una vera e propria rivoluzione. Nel gennaio 1921 dissidi all’interno del PSI provocarono la nascita del partito comunista.
Nel clima rovente e di sommossa di quegli anni i fasci si mobilitarono in numerosi scontri armati e ritorsioni nell’area di Bologna e nel Ferrarese. I proprietari terrieri intravidero nel fascismo un modo efficace per contrastare le leghe rosse. Gli attacchi delle squadre seguirono un medesimo iter: partirono su camionette dalle città verso le campagne per colpire le sedi delle leghe, le camere del lavoro e i municipi socialisti. Gli edifici vennero incendiati e i dirigenti malmenati. Molte amministrazioni rosse si dimisero e le leghe vennero sciolte.
A contribuire al successo dello squadrismo fascista fu un atteggiamento più o meno favorevole da parte dei latifondisti, dei mezzadri e degli industriali che videro in queste azioni violente un metodo valido per contenere l’espansione dei socialisti nelle campagne e all’interno delle fabbriche. Anche le forze dell’ordine considerarono i fasci come un alleato contro le forze di sinistra.
Le elezioni di maggio 1921 sancirono l’inserimento di candidati fascisti nelle liste dei conservatori, dei liberali e dei democratici. I risultati in termini di voti non furono rilevanti ma portarono comunque 35 deputati fascisti in parlamento. A luglio Giolitti si dimise e l’aria che prese a tirare a livello sociale era da guerra civile. Ad agosto il nuovo governo guidato da Bonomi, ex socialista, cercò una via alla pacificazione politica. Fu in questo frangente che Mussolini, vedendo che la funzione antisocialista del fascismo si stava esaurendo e ciò avrebbe potuto spingere i liberali, gli industriali e la corona a togliere il loro appoggio, decise di porsi l’obiettivo del controllo dello Stato. Si andava verso la “marcia su Roma”.
Un fatto curioso e poco conosciuto è che, ancor prima della “marcia su Roma”, Mussolini cercò di assicurarsi l’appoggio dei capitali americani. Le amministrazioni repubblicane e democratiche, l’industria culturale e l’opinione pubblica degli Stati Uniti sostennero, chi più chi meno, Mussolini. Il sistema politico americano per ragioni elettorali non avrebbe potuto inimicarsi la vasta comunità degli immigrati di origine italiana. Pare che l’incontro tra Mussolini e l’ambasciatore americano in Italia, Richard Washburn Child, avvenuto poco prima della “marcia su Roma”, fosse un tentativo di ottenere l’avallo preventivo da parte del governo di Washington. Questa iterazione spiega la grande quantità di investimenti di capitali americani nella realizzazione soprattutto di opere pubbliche come l’ammodernamento della rete ferroviaria e di quella portuale e lo sviluppo dell’elettrificazione del paese durante il nuovo governo fascista.