Calcio non giocato

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VenticinqueGocce2WebI termini esistono, basta utilizzare quelli giusti, senza girarci intorno per edulcorare un concetto, per evitare di offendere e suscitare sdegno.

Vi ricordate i fatti di Milano? L’allegro spettacolo di civiltà dato dalle tifoserie interiste e napoletane? Scorrendo gli articoli riguardanti questo episodio leggo termini come “ultras”, “capo ultras”, “leader della curva”, “ultrà” (con l’accento), e non solo:  anche i “Boys”, i “Viking”, insomma nomi e aggettivi che identificano una serie più o meno organizzata di tifoserie; le pagine web e cartacee ne sono zeppe.

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Spazziamo via per un minuto tutto questo e usiamo per una volta un termine appropriato: delinquenti. Delinquenti comuni, delinquenti organizzati, delinquenti e basta.

Delinquenti liberi di colpire, distruggere, uccidere a volte, e delinquenti che assorbono energie preziose alle forze dell’ordine, delinquenti che sono un grave danno ed un costo per la Società.

L’episodio non è che l’ennesimo di una serie infinita, a volte con delle vittime: Filippo Raciti su tutti nel 2007; evidentemente la voglia, il desiderio di violenza è talmente grande da cancellare questi ricordi; ed è in quelle situazioni che centinaia di frustrati col passamontagna e le spranghe si ritrovano finalmente “uomini” invincibili pronti a battersi per una causa che certamente sfugge anche a loro.

Uomini (credono d’essere) con delle armi in mano ed in gruppo. Vigliacchi e pecoroni quando vengono portati al commissariato per l’interrogatorio. Comunque schegge di una umanità impoverita, grezza, senza barlume di intelligenza né cultura. Cosa porti questi personaggi ad armarsi fino ai denti per tendere agguati ed aggressioni verso altri che probabilmente hanno la loro stessa visione della vita, proprio è impossibile da dire. Resta lo sgomento, oltre la paura ed il timore per le persone normali, quelle che vanno a vedere un evento sportivo con la famiglia, di ritrovarsi nel mezzo di queste micro guerre sempre spaventose, violente.

Occorre pietà e forse il silenzio per l’ultima vittima in ordine di tempo, ma occorre dire che non era un passante, non era un negoziante cui stavano sfasciando la vetrina, e non portava nessuna divisa, non era un altro Filippo Raciti: era un frequentatore delle curve, ma non sventolava vessilli o bandiere, bensì mazze e coltelli, che erano i suoi strumenti  preferiti. Copio pari pari da una pagina a caso: il 39enne si è aggiudicato diversi successi sportivi in discipline quali “scherma corta”, gara di coltello “giacca e coltello” e “capraia”. Non stiamo parlando di ping pong o freccette. In più era sorvegliato speciale per reati connessi a manifestazioni sportive e con un DASPO di cinque anni. Non male il curriculum.

Due figli, una moglie e 39 anni. Occorre naturalmente il massimo rispetto per una vita stroncata in questo modo ma ciò non può non portare a qualche considerazione: il tifoso non era tra le persone più tranquille evidentemente; immagino che nelle domeniche o dopo gli incontri dai quali ritornava ebbro di violenza e probabilmente malconcio, la moglie ed i figli si ponessero delle domande; quando ancora era un perfetto sconosciuto (alle cronache, non alla Questura), e capeggiava i Blood Honour, certamente non è mai stato un esempio da seguire, e comunque per lui era normale l’equazione calcio : rissa = tifo : coltellate.

E’ necessario che coloro che informano  mettano  in chiaro cosa sia veramente il tifo rispetto a quella che è solo guerriglia, violenza gratuita senza motivi, e chiami le cose col loro nome.  La morte di Filippo Raciti, i feriti, gli scontri che distruggono vie e negozi, appaiono una sconvolgente normalità dei nostri tempi. I delinquenti di questo tipo sono ovunque, organizzati, alleati, tutelati direi, coccolati a volte, ma certamente visti come un “effetto collaterale”: non si spiega altrimenti come il calcio continui il proprio percorso, mosso ormai unicamente da interessi; la prova è la Supercoppa  giocata in Arabia, là dove i diritti umani sono inesistenti.  A meno che non si sventoli sotto al naso delle società un congruo assegno pari a milioni di euro: in quel caso il cuore è in pace, le casse sono piene, e le coscienze anestetizzate.

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Luciano Simonetti
Sono Luciano Simonetti, impiegato presso una azienda facente parte di un gruppo americano. Abito a Caselle Torinese e nacqui a Torino nel 1959. Adoro scrivere, pur non sapendolo fare, e ammiro con una punta di invidia coloro che hanno fatto della scrittura un mestiere. Lavoro a parte, nel tempo libero da impegni vari, amo inforcare la bici, camminare, almeno fin quando le articolazioni non mi fanno ricordare l’età. Ascolto molta musica, di tutti i generi, anche se la mia preferita è quella nata nel periodo ‘60, ’70, brodo primordiale di meraviglie immortali. Quando all’inizio del 2016 mi fu proposta la collaborazione con COSE NOSTRE, mi sono tremati i polsi: così ho iniziato a mettere per iscritto i miei piccoli pensieri. Scrivere è un esercizio che mi rilassa, una sorta di terapia per comunicare o semplicemente ricordare.

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