Da un po’ di tempo gira sulla scrivania una frase di Olivier Guez, tratta dal libro “La scomparsa di Josef Mengele”, libro dedicato al mostruoso medico carnefice di Auschwitz, la frase dice: “Ogni due o tre generazioni, quando la memoria si affievolisce e gli ultimi testimoni dei massacri precedenti scompaiono, la ragione si eclissa e alcuni uomini tornano a propagare il male.”
A dieci giorni dalle più importanti elezioni europee mai avute, la frase di cui sopra fa ancor più riflettere, perché troppe sono le avvisaglie che ci dicono che la memoria sta per svanire.
Abbiamo trascorso secoli in questo vecchissimo continente a far scorrere sangue, inventandoci guerre, attendendo al massimo vent’anni l’una dall’altra; abbiamo continuato a modificare confini per ritracciarne degli altri: cambiato la geografia politica a capocchia, sperando di cancellare e cacciare genti.
Abbiamo conosciuto il buio della ragione, ed ora dopo quasi settantacinque anni nei quali Germania, Francia, Gran Bretagna e compagnia son riuscite, una tantum, a non darsele di santa ragione, stiamo qui a chiederci se l’Europa unita abbia ancora un senso oppure no.
Basterebbe questa miserevole constatazione per far capire a chi di dovere che forse occorre rinforzare e non certo indebolire lo studio della nostra storia, per perpetuare la memoria e dare veramente un senso alle parole “perché ciò che è accaduto non debba accadere mai più”.
Certo, in questi sette decenni è stato tutt’altro che perfetto. Dal crollo del muro di Berlino di cose nella vecchia Europa ne sono capitate parecchie e non siamo stati esenti dalle guerre. Leggetevi cosa ci ricorda Ernesto Scalco a pagina 29 a proposito del troppo spesso dimenticato Donbass; andate col pensiero a quando eravamo in vacanza sull’Adriatico e pensavamo che giusto al di là del mare i Balcani erano tornati la solita polveriera ed era in atto un conflitto etnico che per crudeltà e ferocia rivaleggiava con poche eguali.
È vero che errori ne sono stati commessi: forse prima di inserire l’euro sarebbe stato meglio dotarci di un vero e articolatissimo apparato sovranazionale, con un esercito comune, regole fiscali unitarie, un’unica giustizia. Invece la propensione già manifestata dai padri fondatori della C.E.C.A ( la primigenia Comunità Europea Carbone e Acciaio) e del M.E.C. ( il primo Mercato Comune Europeo) aveva sancito la matrice commerciale della nostra Unione. Questo ha finito, con gli anni, per palesare dei limiti e troppi lacci. Con l’ingresso delle nazioni che ora fanno riferimento al gruppo di Visegràd le cose sono peggiorate e l’implosione africana dettata dal neo-colonialismo delle vecchie e nuove potenze economiche ha fatto il resto.
Per numero di abitanti, per possibilità economiche, è ormai da molto che la vecchia Europa ha visto il suo ruolo centrale affievolirsi sempre di più. Abbiamo storia, conoscenze e capacità, ma siamo troppo pochi, vecchi e appagati per poter reggere il confronto con chi fa ruggire produzione e finanza.
A questo punto ci mancherebbe soltanto che tornassimo a dividerci, che puntassimo di nuovo sulla frammentazione e sull’identità delle piccole patrie per trovarci fatalmente coinvolti in una perniciosa e pericolosissima involuzione finale, senza ritorno.
Il 26 maggio bisogna andare a votare. Con quale Europa ci sveglieremo il 27, Dio solo lo sa e non si può non essere preoccupati.
Dovessimo scegliere di mandare un establishment alla malora, di tornare indietro di settatant’anni, di avere come visione migliorativa un’Europa condotta da uomini fatali a forti, faremmo del puro autolesionismo.
Bisognerà cambiare tanto a Bruxelles e a Strasburgo, ma non è buttando via il bambino con l’acqua sporca che possiamo risolvere. Non è dando continua stura ad ampolle di veleno che potremo sperare in un futuro migliore.