Stiamo come stiamo e, a occhio, non siamo proprio ben messi.
La sensazione che si stia grattando ben oltre il fondo del barile è più che netta.
La cacofonia, il vociare inconsulto su ogni argomento – uno più grave dell’altro: il verminaio in seno alla magistratura, la situazione economica, i traballamenti del governo… – recano ogni giorno una ridda di cose che fanno male al cuore e al portafoglio.
Il capitolo che s’è inevitabilmente aperto dopo le elezioni europee del 26 maggio riguarda l’entità più evocata: l’Europa. Un mostro a sette teste per alcuni, l’unica speranza di non consegnarci ai fantasmi del passato per altri.
Il gioco delle parti, poi, fa tutto il resto. Di certo, e lo sappiamo, scelte attuate da Bruxelles o Strasburgo nel corso degli ultimi decenni non solo non hanno favorito e tutelato il “made in Italy”, ma l’hanno spesso mortificato, a vantaggio di mercati e produzioni altrui. Tuttavia, noi ci abbiamo messo del nostro.
Non è certo colpa dell’Europa se da troppo tempo a questa parte abbiamo avuto governi ballerini, incapaci di dar seguito alle riforme necessarie.
Non è certo colpa dell’Europa se siamo riusciti nell’irresistibile impresa di accrescere ancor di più il nostro già mostruoso debito pubblico, di non riuscire a combattere corruzione ed evasione.
Buttandola in caciara, si è arrivati a dire che il voto del 26 maggio è stato un voto contro lo spread, il quale proprio non c’entra nulla con le sanzioni che ci caleranno sul groppone, se le cose non cambieranno drasticamente.
Giova solo ricordarlo, ma lo spread non è altro che il divario fra i rendimenti dei titoli di stato, nel nostro caso fra l’Italia e la Germania: stabilisce il diverso grado di fiducia del mercato nei nostri confronti. Punto.
È il mercato, bellezza e non ci si può fare nulla. Piaccia o non piaccia. Se hai dimostrato d’essere un più che discreto scialacquatore, se il tuo grado di affidabilità è scarso, prima di investire, prima di affidarti altro credito ci penso due volte e ti applicherò tassi d’interesse maggiori. Ed è quello che ci sta capitando.
Se ciò non bastasse a convincere, per capire meglio che razza di Paese stiamo diventando, basta buttare un occhio meno distratto alla pubblicità che corre sui nostri schermi.
Non so se l’avete notato anche voi, ma sono quasi spariti del tutto i “commercials” che reclamizzavano omogeneizzati e biscotti per infanti: qualcuno ha notizia di dove siano finiti i Plasmon?
Per aiutarci a capire come stiamo sempre più diventando un paese per vecchi e di vecchi, gli spot dei pannolini hanno lasciato il posto a quelli dei pannoloni, e se c’è una che parte scosciata per il carnevale di Rio non ha in seno la recondita speranza di andarsela a far bene, ma teme molto di più le sue frequenti perdite urinarie.
Controllare con quale frequenza passino annunci relativi a integratori per le legioni più attempate, scooter a quattro ruote per avvenute disabilità motorie, pillole per lenire ripetute minzioni e avverse condizioni prostatiche è un’impresa.
Piaccia o non piaccia, anche questo è un metro di paragone. Ed è tutt’altro che incoraggiante.
Siamo una nazione vecchia e traballante: errore madornale rifilare colpe ad altri.
Il grande Julio Velasco in una intervista mi aveva detto: “ I vincenti ai problemi trovano soluzioni; i perdenti trovano alibi”.
Da quanto tempo stiamo campando di alibi?