Ma quant’è bella quest’Italia. Forse troppo? Forse troppo. Così tanto da non saperla apprezzare. Avremmo tanto e non lo sappiamo.
È bella tutta, con le sue contraddizioni, con la sua essenza fatta di mille luoghi e borghi incomparabili.
È bella questa Italia che scorre sotto le ruote e porta lontano, in un altrove senza dilettanti e odiatori, dove non c’è spazio per l’improvvisazione, dove il risultato è colto solo appresso a fatica, talento, studio e sacrificio. Parole che paiono sempre più sconosciute al Barnum della politica e di una classe dirigente che cerca vita nell’instabilità, nel rancore e in mille scissioni senz’anima.
Eppure, c’è questa Italia, diversa e nuova, fatta di gente che era smarrita e confusa e che ora è tornata a voler cercare nuove speranze e realtà.
Lo cogli negli sguardi, nei sorrisi, nella professionalità che in tanti hanno tirato a lucido per apparecchiare in modo acconcio il Paese più bello del mondo e per “venderlo” nel modo più sano e onesto. Venderlo, non svenderlo.
Evitando le autostrade – che ci separano dalla vita vera, più che unirci -, lungo le statali sconnesse da una eufemistica manutenzione, incontri anche quello che non vorresti: abbiamo delegato ad altri la produzione per diventare soprattutto degli smistatori di prodotti altrui. Quanto è lunga la teoria di capannoni votati alla logistica? Negli ultimi decenni, soffocati dal costo del lavoro eccessivo, siamo stati maestri nel delocalizzare e ora siamo qui a occuparci prettamente di consegne.
La prima clausura già aveva messo in evidenza quanto costasse e pesasse il dover ormai dipendere da altre nazioni e, se tanto mi dà tanto, non sembra che per ora la lezione sia stata appresa. Delle tre regole non scritte del management – sapere, saper fare, saper far fare – abbiamo coltivato soprattutto la terza, consegnando know how, competenze a chi ora ci fa pagare caro e salato ciò che non siamo più in grado di produrre.
Per inciso, il vero problema della ripartenza è e sarà legato alla mancanza di materie prime. Legno, ferro, vetro e compagnia briscola hanno visto raddoppiare, triplicare il loro costo e queste saranno forche caudine difficilissime da superare.
La delega costante e reiterata, l’improvvisazione senza pianificazione a lungo termine ci ha portato in secche pericolosissime, e un uso improprio del recovery fund potrebbe risultare mortale.
Peccato, perché c’è un’altra Italia possibile.
È quella che è scorsa nelle ultime settimane nelle nostre vene e nei video.
L’Italia forgiata e voluta da Roberto Mancini, quella che Matteo Berrettini ha portato in finale a Wimbledon è lì a dircelo.
Siamo diventati Campioni d’ Europa, protagonisti sui prati di Church Road non perché costretti da un’ennesima “ linea Piave”, oppure dal solito “ chiagne e fotte” che ha caratterizzato troppi nostri incedere. No, per una volta, per la prima volta abbiamo messo in campo una terza via, basata su una proposta visionaria ma quantomai concreta, forgiata sul collettivo, sul bene comune da perseguire. Risultati del genere non arrivano per caso, sono frutto di sacrificio, competenze cercate e ricercate, di efficienza figlia dell’abnegazione, dell’orgoglio del senso d’ un’ appartenenza. Anche nello sport più individuale che ci sia, la finale raggiunta da Berrettini è il frutto d’un lavoro di squadra che dura più di 365 giorni l’anno.
Il messaggio che ci viene da questi ragazzi è semplice : l’Italia s’è desta, la rinascita dipende da noi.
Ci sentissimo Italiani ogni giorno, tratteremmo meglio questo nostro meraviglioso Paese.
L’Italia è bella, troppo spesso ce ne dimentichiamo. Fino a non meritarla.
Elis Calegari