Tra i temi più singolari caratterizzanti il fenomeno stregoneria-magia in Piemonte, si inserisce l’ambiguo rapporto tra alcuni esponenti di Casa Savoia e l’universo dell’occulto.
Un caso emblematico è quello relativo ai processi intentati contro alcuni prigionieri accusati di aver svolto attività magica per attentare alla vita di Vittorio Amedeo II. Abbiamo numerosi esempi di questa realtà, in una serie di casi di pratiche di magia nera attuate da alcuni carcerati per colpire l’autorità.
La cronaca dei fatti è estremamente ben documentata e si riferisce ad alcune cause che coinvolsero più di sessanta imputati. Un elemento indicativo, da tenere in considerazione, sarebbe la prematura scomparsa del principino Vittorio, primogenito del re di Savoia (marzo 1715), fatto che fu considerato il risultato di un’azione magica, destinata a gravare pesantemente sull’assetto umano, prima che politico, di Casa Savoia. Questa morte fu sconvolgente per il re, in quanto aveva allevato personalmente il figlio fin dalla più tenera età. Alla scomparsa del giovane la famiglia reale entrò in una grave crisi: Vittorio Amedeo fu fuori di sé per un’intera settimana, vagando in preda al delirio all’interno del palazzo. La vox populi attribuì a un maleficio la morte del piccolo Vittorio: voce che sembrò trovare conferma nella disperazione che allora aveva avvolto la Casa Reale. In effetti si erano già verificati dei precedenti che avvaloravano l’idea che si volesse colpire la famiglia reale con pratiche magiche. Si tratta di episodi eclatanti collegati alla paura del diavolo e al potere delle streghe.
L’ultimo rogo, in Valle di Susa, fu acceso nel 1742 a Chianocco: tra le fiamme perì Margherita Richetto, da tutti considerata una pericolosa “masca”. Poi la caccia alle streghe si fermò, lasciando echi di terrore e domande senza risposta.
Se però facciamo un salto indietro fino al XIV secolo e ci soffermiamo a guadare il fenomeno della stregoneria in Valle di Susa, ci rendiamo conto che alcuni tratti della credenza hanno mantenuto inalterate nel tempo le loro peculiarità. È in particolare il pensiero magico ad essere rimasto pressoché uguale nel tempo, in fondo, ieri come oggi.
Tra le prime fonti troviamo quelle accuse di “feyturas seu veneficia”, o che indicavano una donna “veneficiatrix seu feytureria”, o ancora: “publica veneficiatrix”, “mala veneficiatrix”. In genere donne che operavano “contra fidem catolicam”.
Un altro aspetto significativo che trapela dalle fonti sulla stregoneria e relative alla Valle di Susa, riguarda la frequentazione, da parte delle donne dedite alla magia, di luoghi e cose consacrate alla morte. Tra gli esempi valsusini ricordiamo quello che proviene dal frammento di un procedimento incompleto (Archivio di Stato di Torino, Sez. Riunite, art. 706, §16, reg. 18) relativo all’azione inquisitoria della Curia abbaziale di San Giusto di Susa (1346) contro Loenetta Favro. La donna avrebbe fato uso della corda usata per le impiccagioni con fini magici. La pratica sembrerebbe comunque essere orientata in direzione “positiva”: infatti la donna si sarebbe servita di quella corda al fine di acquisire maggiore successo sul piano sentimentale. Infatti, secondo la tradizione perseguita dalla Favro, toccando qualcuno con la corda di un impiccato sarebbe riuscita a far innamorare la vittima della magia.
Il desiderio di ottenere dei risultati sul piano amoroso alimentò anche le pratiche effettuate da Giacometta de Iohanna, accusata di essere una fattucchiera dalla Curia abbaziale di San Giusto (Archivio di Stato di Torino, Sez. Riunite, art. 706, §16, reg. 8). Infatti la donna, preparava delle torte destinate trasformarsi in magici afrodisiaci: tra gli ingredienti una serie di prodotti orridi, come in genere risulta nelle procedure contro le streghe. Giacometta, secondo la vox populi, era però artefice di pratiche magiche ben più pericolose di un filtro d’amore. Infatti la donna era indicata come la colpevole della morte della moglie di un certo Stefano de Iohannino: probabilmente l’uomo era coinvolto nella morte della consorte.
Un altro potente mezzo magico per legare sentimentalmente era costituito dal vino con “de fluxu sanguinis mulierum quando patintur eorum malum”. Così almeno risulta dalle accuse rivolte a Giovanetta Fava, indicata come fattucchiera e processa a Susa il 5 giugno 1385 (Archivio di Stato di Torino, Sez. Riunite, art. 706, §16, reg. 41, f. 160, r 161).
L’assunzione, per nove volte, della singolare bevanda avrebbe garantito la fedeltà degli uomini, determinando, qualora si fossero avvicinati ad un’altra donna, “tamcito secharet”.