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sabato, Luglio 27, 2024

    Celebrità ad alta gradazione

    In principio fu qualche cantante di casa nostra, si pensi ad Albano Carrisi e al rosso potente della sua tenuta pugliese, poi vennero anche le rockstar internazionali come Sting e il rosso Mick Hucknall dei Simply Red con i rispettivi olii toscani e tannini di Sicilia, per tacere di mostri sacri di Hollywood come Francis Ford Coppola e George Clooney, il primo produttore di vini in California e il secondo in affari con un marchio di Tequila superpremium da poco ceduto a un colosso del beverage mondiale quale Diageo. La bellissima diva francese Carole Bouquet produce da anni un ottimo Passito di Pantelleria, l’ultimo fuoriclasse del pallone d’oltremanica David Beckham (“Il sinistro di dio” lo chiamavano a Wembley) ha messo il suo bel faccione e qualche mucchio di sterline nel rilancio di uno storico scotch whisky dalla caratteristica bottiglia squadrata in vetro blu, mentre il cerimoniere televisivo per eccellenza del nostro giornalismo da poltrone Bruno Vespa si diverte con un’avviata e premiata cantina in terra di Puglia.
    Insomma, questo scorcio di XXI secolo sembra aver consigliato ai cosiddetti “volti noti” investimenti più o meno impegnativi in progetti legati al vino e agli spiriti. Il motto pare dunque il seguente: se hai un nome, lo devi appiccicare all’etichetta di un qualunque liquido. O tempora o mores, direbbero quelli che ne sanno: ad ogni era le proprie manie, semplifichiamo noi. Perché se oggi le celebrità – vere o presunte – firmano le bottiglie, nel secolo scorso accadeva esattamente il contrario: erano i vini e gli spiriti a prendere il nome delle celebrità come forma di omaggio alla loro arte, quale che essa fosse. Qualche nome? I Reali Alfonso XIII di Spagna ed Edoardo VIII Duca di Windsor, Josephine Baker, Enrico Caruso, Charlie Chaplin, Douglas Fairbanks, Jean Harlow, Charles Lindbergh, Guglielmo Marconi, Mary Pickford e tanti altri ancora, per tacere del più beone e talentuoso di tutti: Ernest Hemingway. Per ognuno di essi esiste un omonimo cocktail. La storia che voglio raccontarvi è legata forse al meno famoso dei personaggi famosi che hanno ispirato un drink ma è una storia talmente singolare che merita di essere rispolverata.
    Reso iconico dal solito Harry Craddock nel suo epico manuale “The Savoy Cocktail Book” del 1930 questo cocktail racconta due avventure a loro modo uniche. La prima è legata al nome del personaggio che gli ha dato il nome: Barney Barnato (1851-1897). Nato Barney Isaacs, di famiglia poverissima, fu un Randlord britannico e imprenditore nel settore dell’estrazione di diamanti e oro dalle miniere del Sudafrica, di cui assieme al fratello Harry ottenne il controllo dal 1870 e grazie alle quali divenne il principale antagonista di Cecil John Rhodes, che gestiva le miniere di proprietà dell’olandese DeBeers e che poi divenne anche Primo Ministro della Colonia del Capo (Cape Colony).
    La Barnato Diamond Mining Company e la DeBeers Consolidated Mines furono in feroce competizione per il mercato e il commercio dei diamanti sudafricani fino a quando, per una lunga serie di motivazioni politiche, economiche e di sfide personali, Barney accettò l’offerta faraonica di Rhodes che per conto della DeBeers acquistò nel 1888 la Barnato Diamond Mining Company con un assegno da 4 milioni di sterline (controvalore odierno: oltre 2.5 mld di sterline), ancora oggi la cifra più alta mai staccata con un singolo cheque. Barney entrò in politica nel Parlamento di Cape Colony e grazie al boom delle miniere d’oro del 1894-95 raddoppiò la sua fortuna personale diventando uno degli uomini più ricchi del mondo. Anche il rovescio fu però repentino e colossale: lo storico crollo delle azioni dell’oro del 1896 azzerò quasi del tutto il suo immenso patrimonio. Morì l’anno successivo in circostanze misteriose, a soli 46 anni, precipitando in mare durante il viaggio di ritorno in Inghilterra. Qualcuno ritiene si sia suicidato. L’unica certezza è che oggi riposa al cimitero ebraico di Londra.
    La seconda avventura ha per protagonista uno degli ingredienti che compongono il cocktail, ovvero il Caperitif, caratteristico vermouth sudafricano (scelto da Craddock proprio come omaggio alle lontane vicende del protagonista) a lungo scomparso dal mercato e recentemente tornato disponibile grazie alla passione di un barman danese con trascorsi da modello. Nato ai primi del ‘900, il vermouth era composto da una base di vini locali fortificati con la china delle Ande a cui poi venivano aggiunte le tipiche botaniche indigene. Lo stile di riferimento era quello del vermut italiano; ben presto la voce che un insolito drink sudafricano fosse apparso sulla scena si diffuse rapidamente ai quattro angoli dell’Impero britannico di cui all’epoca il Sudafrica faceva pienamente parte. Il Proibizionismo americano fece il resto e il Caperitif entrò trionfalmente a Londra, nella lista di cocktail dell’American Bar del Savoy Hotel. Nel 1960 la produzione cessò a causa del crescente mercato interno guadagnato dalla birra. Il Caperitif restò nell’oblio per quasi mezzo secolo fino a quando un mixologist della Danimarca, Lars Erik Lyndgaard, si incuriosì leggendo la ricetta del Barnato Cocktail contenuta nel “Savoy Cocktail Book” di Craddock: 4.5 cl di Brandy, 2.5 cl di Caperitif, qualche goccia di Angostura e di Curaçao. Un viaggio in Sudafrica sulle tracce del vermouth perduto e delle sue botaniche ‘fantasma’ lo mise in contatto con un produttore di vino del luogo, Adi Badenhorst; i due si piacquero professionalmente e si misero in affari riportando in vita il liquore, oggi nuovamente disponibile – sebbene con una distribuzione europea pressoché esoterica – e realizzato su base di vino Chenin Blanc con 35 botaniche (tra cui Artemisia Africana, Calamo, Konfettiboos, Pompelmo rosa e Rooibos – per i curiosi: http://caperitif.com).

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