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venerdì, Ottobre 4, 2024

    Quanto è…Caotico questo vino!

    In margine al Vinitaly di Verona

    9Anche il Vinitaly 2023 è passato. Viva il Vinitaly! Finita l’ubriacatura (appunto) collettiva di new release, première, verticali cieche, sinestesiche, digitali, etichette Nft, appezzamenti acquistati sulla blockchain, tavole rotonde, seminari, webinar, dati, numeri, algoritmi, proiezioni, mercati, fatturati, comparti, indotto, export, il record di fantastilioni di bottiglie di Prosecco mandate a invadere il globo nonché l’eterno confronto con la Francia e via cianciando…adesso ridateci il vino, per favore. Per farlo, nulla di meglio che dedicarsi a quelle bottiglie e a quei produttori che magari al Vinitaly ci sono anche stati (ma forse no) e che però finiscono difficilmente nelle cartelle stampa distribuite urbis et orbis (ma, per carità, solo su cloud o drive, che si sa oggi siamo tutti ecosostenibili). Leggendo le cronache da Verona, mi sono scientificamente rituffato nel ricordo della piovosa mattina di un mercoledì di ottobre in cui feci la conoscenza di Barbara Avellino, vignaiola indipendente e temeraria in quel di Rovescala, Oltrepò pavese. Ero capitato nel giorno forse peggiore dell’intera settimana: quello dell’imbottigliamento. I tentativi di dissuaderla dal darmi retta in quei momenti di confusione caddero miseramente nel vuoto: “Tranquillo, anch’io ho bisogno di staccare almeno mezz’ora”. Ecco, per Barbara Avellino staccare dal lavoro equivale a raccontare a uno sconosciuto piombato senza preavviso nel bel mezzo dell’imbottigliamento come e perché abbia deciso di produrre il proprio vino. Come si fa a non voler bene a una così?  Una che tutti i giorni manda un campione in laboratorio per le analisi allo scopo di individuare il momento (addirittura l’orario) migliore per compiere il trasloco fatidico dalla botte al vetro. Una che di quel vetro, indicandomi gli scaffali di formati magnum pronti per accogliere il prezioso liquido, lamenta l’assoluta antieconomicità (‘La magnum vuota io la pago dieci euro e la bottiglia la vendo al pubblico a ventitre. Forse non sono brava col marketing’ ammette con disarmante candore). Il vetro non è un vetro qualunque bensì un vetro temperato e lavorato con la qualità necessaria a contenere le bizze di un vino in continua fermentazione spontanea, che per la sua prima tappatura necessita di un arnese quasi alchemico (l’afrometro) per contenerne le esuberanti atmosfere di pressione. Un vino rosso fermo. Il Caotico, appunto. La scheda tecnica riportata sul sito dell’azienda racconta di un assemblaggio dell’85% di croatina coltivata a tralcio (rinnovabile) e 15% di barbera allevata a cordone permanente, entrambe a controspalliera su un terreno argilloso e plastico di matrice calcarea posizionato a 240 metri s.l.m. che non mai ha conosciuto e mai conoscerà irrigazione artificiale. Eppure, ficcare il Caotico nel perimetro di una semplice per quanto puntuale descrizione di specifiche agricole, produttive ed enologiche è una forzatura ancora più estrema di quella a cui sembra condannato il liquido fremente e a tratti rabbioso i cui aromi e tannini scalpitano nella bottiglia. Il Caotico viene lasciato macerare a lungo sulle sue bucce, non effettua rifermentazione (la cosiddetta presa di spuma avviene in bottiglia per effetto della continua fermentazione alcolica primaria che non viene arrestata in cantina), non viene sottoposto a sboccatura e nemmeno a filtrazione. E’ un vino tecnicamente di ‘sottrazione’ quando non esplicitamente di assenza. Per questo, dentro il bicchiere la sua presenza è esplosiva. Alla lettera, come dimostrano le diverse bottiglie crepate e spaccate riunite in un ideale monumento ai caduti ricavato in un angolo dei bancali. Barbara a questo punto estrae dalla gabbia una bottiglia senza etichetta (per inciso, quella del Caotico è bellissima) e tappata con l’afrometro. Dietro il bancale scorgo una stufetta elettrica, un’altra ancora nell’angolo opposto e una terza strategicamente piazzata nelle immediate vicinanze di un altro bancale. Chiedo. “Questa stanza non è riscaldata e la temperatura oscilla troppo a seconda di quella esterna – mi dice mentre con una circospezione che inizia a intimorirmi procede alle complicate operazioni di disinnesco dell’afrometro – Il Caotico deve riposare a 16-18 gradi costanti e quindi le stufette sono per il momento il mezzo più efficace ed economico che ho trovato per garantire questa temperatura”. Poi il botto sordo e ovattato. Finalmente, il Caotico sgorga in un bicchiere. Il colore è impressionante, materico, paragonabile alla pesante stoffa dei drappi da sipario teatrale; il naso è in prima battuta un caleidoscopio di frutti rossi e spezie di incerta catalogazione, davvero ‘caotico’. Barbara mi avverte: “Adesso dobbiamo lasciarlo riposare un po’ nel bicchiere perché tutte le sue componenti si assestino e si adattino al nuovo ambiente”.
    Già, perché il Caotico è un vino vivo, poche balle, e come tutti gli esseri viventi ha bisogno di un po’ di tempo per prendere confidenza con una nuova condizione. Qualche secondo di ossigeno aiuta infatti a dipanare gli aromi primari, e allora ecco le more di rovo e il lampone che si fanno largo a spintoni tra il residuo alcolico e le bacche di pepe nero sbriciolate dentro un pugno di terra bagnata (un sommelier direbbe goudron, ma qui di sommelier non ce ne sono). Nella bottiglia c’è quasi solo Croatina, ma i tratti tipicamente distintivi di quell’uva (i cosiddetti ‘varietali’) alle prime sorsate si percepiscono lontani ed evanescenti, richiamati solo da un’ideale nota a piè di pagina dove sarebbe scritto: “Ah sì, questa è comunque Croatina…”. Quindi, se assaggerete il Caotico pensando di trovare nel bicchiere la classica Bonarda oltrepadana dalla spuma allegra, naturale briosità e beva sbarazzina…be’, probabilmente rimarrete delusi. Se però chiudete gli occhi e vi lasciate travolgere dalle sensazioni, sarà come essere saliti su quella che pensavate una berlinetta asiatica di classe media e che avete scoperto essere invece un’Aston Martin, veloce, fragile e dannatamente affascinante come solo le fuoriserie britanniche sanno essere.

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