L’amico di gioventù che non vedevo da anni mi sorprende appoggiato al cancello di casa nel caldo pomeriggio di questo anticipo d’estate e certamente più provvisto di buone intenzioni che di pura curiosità, dopo le solite scontate domande, continua ad osservarmi e poi ostentando grande sicurezza afferma: “Ma sei sempre uguale”. Accolgo con partecipata indifferenza questa clamorosa bugia, simile soltanto a quelle di tipo elettorale che per tutto il mese di maggio, e fino all’altro ieri, hanno fatto da prologo alla nascita del nuovo governo cittadino.
Un mese di maggio che ora, come alla moviola, mi passa davanti per regalarmi il dolce e tormentoso piacere del tornare indietro, agli altri lontani mesi di maggio quando la fiera “ d’le capline e dei rastej “ dalla Piazza Boschiassi percorreva senza interruzioni una brulicante e affaccendata Via Torino per impadronirsi successivamente del Prato della Fiera dove negli Anni ’60 le prime macchine agricole promettevano di alleviare la fatica di chi, sotto il sole caldo e impietoso dell’estate molto diverso da quello che sulle spiagge della vacanza cattura i più fortunati, sperava di garantire un inverno sereno agli inquilini della propria stalla.
Nell’aria l’odore secco e forte del fieno di primo taglio, a cui bel tempo permettendo succedeva la “riorda”, si confondeva con il profumo delle rose che, per una sorta di collaudato mestiere, in questo mese si facevano trovare pronte per accogliere la statua della Madonna decisa ad uscire di casa per recarsi ogni sera in un diverso cortile dell’allora meno estesa Caselle. Nel tripudio di improvvisate luminarie e di devotissimi ceri dalla incerta fiammella si adagiava su altari traballanti addobbati con candide tovaglie temporaneamente sottratte al corredo di qualche giovane sposa. Canti, invocazioni e misteri del rosario salivano al cielo tanto in improbabile e sconosciuta lingua latina, quanto in non meno misteriosa lingua italiana, spesso per l’ occasione poetica e tortuosa, segno di un rapporto difficile tra noi ed il nostro idioma nazionale che il tempo e la scuola hanno vanamente cercato di appianare.
Le varie tappe della nostra migrazione interna nata nel dopoguerra e successivamente favorita dal boom economico anziché costituire l’occasione per tentare lo sviluppo e la diffusione, certamente non facili, della lingua italiana, si sono rivelate, per chi ha ormai compiuto tanti anni, l’inevitabile trionfo dei dialetti, locali o di provenienza , profondamente diversi tra loro e tuttavia costretti a convivere.
E quando passando gli anni abbiamo creduto che per l’effetto benefico di una progressiva e innegabile maggiore istruzione generale avremmo potuto finalmente usare la lingua italiana per parlare e scrivere senza troppi errori, ci siamo accorti che, come nei migliori telequiz, il tempo era scaduto.
Con buona pace dell’amatissima maestra Benci e delle indimenticabili maestre Benaglia e Lulli che, calate nei loro lucidi e lisi grembiuli neri, dall’alto di una severità che solo più tardi avremmo compiutamente apprezzato senza esserne ancora intimoriti, si erano prodigate con noi, bambini del dopoguerra, per insegnarci il tempo e il modo dei verbi e per informarci, con la raccomandazione di non dimenticare, che nove sono le parti del discorso. Ovvero il fondamento della lingua italiana.
La realtà dei nostri giorni è invece costellata di neologismi a presa rapida e, in molti casi, di gratuite incursioni linguistiche in territorio straniero capaci di sedurre particolarmente chi ha scarsa confidenza con l’idioma nazionale.
Oggi non si invoca più la riservatezza ma la privacy ; non si è più estromessi dal gioco ma si è mandati in nomination, sperando vivamente che la sentence non nasconda sottilmente altre meno gradite destinazioni.
A metà del mese scorso Torino ha ospitato il festival europeo della canzone di cui non credo valga la pena parlare se non per rilevare quanto poco ci appartenga questo genere di spettacolo, e per certificare purtroppo l’ultimo tradimento alla nostra lingua, pressoché assente o scarsamente rispettata nel corso della competizione.
Per fortuna, poiché dalle nostre parti per antica tradizione tutti i salmi finiscono in gloria, dopo l’esibizione non indimenticabile della matura Gigliola, che a distanza di oltre mezzo secolo continua a non avere l’età, finalmente a conclusione dell’avvenimento, nel cielo del nostro capoluogo si è levata l’italianissima “Volare”, parole e musica.
Da domani molti nostri giovani in cerca di un lavoro precario da collocare tra due quasi inevitabili disoccupazioni, compilando l’ennesimo curriculum vitae, alla voce lingua straniera conosciuta, con sicurezza potranno rispondere : l’ italiano.
Parlato o scritto ? Cantato… cantato.
La lingua tradita
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