La morte si fa digital

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Il mese di Novembre è storicamente associato alla commemorazione dei defunti.

Ed è proprio da questa ricorrenza che vorrei partire per condividere una riflessione sul rapporto tra la fine dell’esistenza terrena e le possibilità che oggi la tecnologia ci offre per mantenere vivo il ricordo di chi non c’è più.

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Non mi riferisco solo a cornici digitali, in grado di riprodurre foto e video, ma di vere e proprie entità digitali in grado di interagire con chi “rimane”. Oggi è possibile farlo attraverso sistemi di messaggistica digitale, ma domani potrebbero diventare sistemi multimediali e interattivi.

Oggi è già possibile avviare delle conversazioni con dei bot che riproducono molto fedelmente lo stile linguistico e stilistico “de cuius”. Nel 2017, un giovane programmatore ha sviluppato una AI (Intelligenza Artificiale) in grado di memorizzare e poi restituire interattivamente le memorie del padre morente, raccolte prima di passare a miglior vita. Oggi questo “Dead Bot” esiste ed è accessibile per tutti: “Qual è il tuo primo ricordo?”, “Come hai conosciuto la mamma?”, “Qual è il momento in cui ti sei sentito davvero orgoglioso di me?”. La registrazione delle storie è gratuita, ma i piani per condividere gli avatar con familiari e amici partono da circa 50 euro all’anno. Inquietante, vero?

Queste tecnologie, oggi ancora agli albori, sono già in grado di conversare in maniera naturale e sono capaci di non far percepire la presenza “robotica” del software. Un domani non troppo distante, sarà possibile integrare anche i video, in modo da poter dare consistenza ai ricordi e ulteriore “umanità” alle interazioni.

Ma come può un software essere in grado di assumere le “fattezze digitali” di qualcuno che conosciamo o che ci è caro?

È semplice: con quante persone, a noi vicine, interagiamo continuamente attraverso i messaggi di Whatsapp? Lo stile linguistico, l’ironia, i ricordi, la conoscenza di dettagli specifici di esperienze condivise, in qualche modo “certificano” che dall’altra parte c’è effettivamente chi pensiamo. Un caro amico, un marito, un figlio o una sorella, ciascuno di noi sviluppa “un’impronta” stilistica che oggi è possibile “digitalizzare” e trasferire all’interno di strutture basate su intelligenza artificiale e server nel cloud.

Il principio di funzionamento è tutto sommato semplice: basta istruire questi programmi, dando loro in pasto email, post sui social, memorie di smartphone, archivi di messaggi e qualsiasi altro elemento che possa essere usato come base dati, per estrarre stile linguistico e ricordi.

Nel 2021, è stata brevettata una nuova tecnologia creata dagli sviluppatori Microsoft in grado appunto di avere una conversazione virtuale con una persona cara defunta. Ai fan di Netflix, verrà certamente in mente una puntata della serie “Black Mirror”, che parlava appunto di interazioni con personalità “clonate” e riprodotte all’interno di strumenti elettronici.

In un prossimo futuro sarà possibile continuare a interagire con chi non c’è più. Ma sarà un modo legittimo per mantenere vivo il ricordo di una persona cara, oppure un modo non sano di cronicizzare un lutto, che invece andrebbe elaborato e, nel tempo, superato?

Nel 1200/1300 i morti rappresentavano una classe d’età: i giovani, i maturi, i vecchi e i morti. Si aspirava a passare “a miglior vita” per raggiungere il Paradiso e gli altri cari che non c’erano più.

La modernità, il miglioramento delle condizioni di vita, la ricchezza, le relazioni sociali, hanno portato le persone a vedere la morte come qualcosa da stigmatizzare: “Io sono la mia anima e il mio corpo, non aspiro ad un Aldilà migliore di questa vita terrena e, quindi, temo la morte”.

Chi resta, complici le tecnologie sempre più pervasive e avveniristiche, può non riuscire ad accettare questo distacco, decidendo di aggrapparsi a un ologramma interattivo, in grado di creare dei veri e propri fantasmi digitali.

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