C’è una storia che mia madre raccontava spesso e che ora io racconto (spesso) ai miei figli e ai ragazzi a scuola. E forse oggi, a pochi giorni dal prossimo 25 aprile, è il momento giusto per scriverla, così di getto, come viene.
È una storia che racconta di quando mia mamma era una ragazzina adolescente, che ogni giorno si faceva una cinquantina di chilometri in bicicletta per andare al lavoro, mentre nel mondo infuriava la folle guerra. Tre dei suoi fratelli erano a combattere. Il primo non era lontano, ma sulle montagne sopra Ciriè, nelle fila della Resistenza. Gli altri due erano militari in guerra, ma dopo l’8 settembre 1943 erano stati arrestati dai tedeschi. E visto che si erano rifiutati di arruolarsi con i nazisti, vennero deportati in Germania. A casa lo sapevano, e sapevano che i campi di prigionia non erano certo il miglior posto in cui trovarsi; ma non immaginavano neppure lontanamente che cosa davvero accadeva lì dentro. In realtà, come sappiamo oggi, la situazione degli Internati Militari Italiani nei campi era terribile. Talvolta – se può avere un senso definire una scala dell’orrore – persino peggiore di quella degli altri prigionieri, in quanto considerati dai nazisti “traditori”.
Verso la fine del ’44 il primo fratello, quello che combatteva con i partigiani, venne catturato in un’imboscata. Qualcuno, per pochi soldi, come troppo spesso accadeva, aveva fatto una soffiata. Venne portato e ammassato con molti altri nel carcere di Ciriè, che all’epoca si trovava in piazza Castello. Questi giovani venivano spesso usati come rappresaglia dai tedeschi. E così, ogni volta che si sapeva che i partigiani avevano compiuto qualche azione, mia madre quindicenne e mia nonna si appostavano davanti al carcere, sperando che non fosse lui ad essere fucilato. I ragazzi selezionati venivano caricati sul carretto (il tamagnun) e condotti sul luogo della fucilazione. Mia madre conosceva molti di questi. Un giorno restò impressionata perché vide sul carro un ragazzo giovanissimo che conosceva molto bene: era quasi irriconoscibile per le botte ricevute e i capelli gli erano diventati bianchi. Ma mio zio non venne fucilato. Nei primi mesi del ’45 venne trasferito alle Nuove di Torino nella sezione tedesca, qui fu torturato e poi condotto negli scantinati, nel braccio della morte. Ma fu fortunato, perché arrivò questa giornata meravigliosa. Come ha scritto un mio amico, proprio in questi giorni, lo scorso anno, il 25 aprile è la più bella festa del calendario. E così mio zio poté tornare a casa. Ma il tormento non era finito perché all’appello mancavano ancora due fratelli. A quei tempi la numerosissima famiglia di mia madre abitava in centro a Ciriè. E ogni volta che arrivava il treno da Torino mia mamma e mia nonna si piazzavano all’inizio del viale e osservavano con attenzione i passeggeri che, usciti dalla stazione, si incamminavano lungo il viale. E andò avanti, così, ogni giorno, per diversi mesi. Poi una mattina, non diversa dalle altre, mia nonna lanciò un grido. No, non vedi, che magro, disse mia madre, non è lui. No no, faceva mia nonna, quel passo lo riconosco bene. Aveva ragione, le madri non si sbagliano su queste cose: era uno dei suoi figli. Magrissimo, quasi irriconoscibile. Lo accompagnarono a casa. Disse poche parole: se raccontassi quello che ho visto nessuno ci crederebbe. E un po’ alla volta, dai campi e dalle officine arrivarono di corsa i suoi fratelli. Ma lui stava male, quasi non si reggeva in piedi e non riusciva a mangiare. Due dei fratelli più robusti fecero una sedia incrociando le braccia e lo portarono all’ospedale, che a quei tempi si trovava in piazza Castello, dove ora c’è la casa di riposo Il Girasole. I medici storsero il naso: è grave dissero, qui possiamo fare poco per lui. In ambulanza lo trasferirono al Mauriziano di Lanzo, dove morì qualche settimana dopo.
E intanto i pellegrinaggi al viale continuavano, diverse volte al giorno, perché il terzo fratello non tornava. Continuarono per mesi, anni, poi si diradarono e infine terminarono. Il terzo fratello, Giovanni, non tornò e di lui non si seppe nulla. Resta una sola fotografia, che mia madre trovò pochi anni prima di morire. E solo alcuni mesi fa, grazie alle risorse web dell’ANRP, l’Associazione Nazionale Reduci dalla Prigionia e dall’Internamento, sono riuscito a trovare poche, ma preziose notizie: Massa Bova Giovanni, nato a Ciriè il 27 gennaio 1920, arruolato nel 49° reggimento fanteria, catturato sul fronte greco-albanese, deceduto il 17 aprile 1944.