Le maggiori vicende militari di Caselle avvennero certamente nella prima metà del Cinquecento, quando il paese venne occupato dai Francesi, durante le guerre che videro contrapposti i Transalpini e gli Spagnoli.
Intanto, con l’occupazione francese durata circa trent’anni, Torino continuò a essere la sua sede amministrativa del Piemonte, divenne sede di un parlamento provinciale su modello francese e conobbe un ulteriore impulso economico in circa un decennio di tranquillità.
Intorno al 1537 Caselle venne attaccata dagli Spagnoli per liberarla dai Francesi, ma il castello resistette a tre assalti.
Nell’anno seguente il maresciallo Annebaldo, Governatore di Torino, ordinò ripari alle mura di Caselle, le quali nel 1542 resistettero a un nuovo assalto, comandato dal condottiero Cesare de Majo.
Nell’inverno del 1543, le forze francesi si stanziarono nelle vicinanze di Torino sulle piazzeforti di Pinerolo e Moncalieri, mentre quelle imperiali spagnole presero posizione più a nord nelle fortezze situate tra Mondovì fino ad Ivrea.
Dopo una tregua, nel 1544 la guerra riprese con violenza, con il coinvolgimento di truppe francesi e spagnole, che di nuovo percorsero a più riprese lo stato sabaudo.
Secondo De Boyvin, un testimone oculare citato da Bertolotti, comandava in Caselle l’ufficiale De Gye, luogotenente del signor De Maugiron, governatore del luogo, con 400 soldati francesi.
Gli Spagnoli nel 1552 fecero intendere di voler assaltare veramente sul serio Caselle con ingenti sforzi, per cui il Maresciallo Carlo de Cossè, conte di Brissac, governatore e luogotenente generale del Piemonte occupato, disperando di poter salvare Caselle, decise di far ritirare le sue truppe. Quando tutto sembrava deciso, si fece avanti Blaise de Montluc, che convinto di riuscire nell’impresa di salvare Caselle, si offrì spontaneamente, nonostante il consiglio generale di non esporvisi.
Di questo episodio il Montluc fa un lungo cenno nei suoi Commentari dando molti particolari sulle fortificazioni di Caselle e delle sue opere difensive.
Blaise de Montluc
Blaise de Lasseran, de Massencome e signore di Montluc (o Monluc), naque tra il 1500 e il 1502 à Saint-Puy (Guascogna) e morì il 26 luglio 1577 à Estillac (sempre in Guascogna), era un condottiero francese, discendente da famiglia nobile e numerosa, ma ormai in decadenza, che servì cinque Re di Francia (François I, Henri II, François II,Charles IX e Henri III).
Blaise di Montluc, per necessità e per vocazione, si arruolò in giovane età nell’esercito francese prendendo parte alle “Guerre d’Italia” combattute dal re di Francia Francesco I contro l’imperatore Carlo V.
Nell’ultimo periodo della sua vita, dal 1570 al 1577, a causa di una grave ferita al volto riportata in combattimento, dovette lasciare il servizio militare e probabilmente, aiutato dal fratello Jean de Montluc, vescovo di Valence, scrisse le memorie delle sue azioni di guerra nei suoi “Commentari”.
Quest’opera racconta la sua vita di soldato al servizio di quattro re di Francia, ed è molto interessante per la descrizione particolareggiata dei preparativi di guerra e dei combattimenti nella cronologia delle battaglie sostenute, con molte riflessioni e consigli sulle strategie, tanto da costituire un interessante repertorio di tecnica del combattimento e di conoscenza degli armamenti del XVI secolo.
Nella prefazione, dedicata ai capitani di fanteria, Montluc spiega che lo scopo dei suoi Commentari è quello di istruire gli ufficiali di rango sulle tecniche dell’arte militare e far conoscere il suo cursus honorum per dimostrare come anche un gentiluomo nato povero possa arrivare alla nomina di Luogotenente generale e infine di Maresciallo di Francia.
In un articolo del febbraio 2018 mi ero già occupato delle antiche fortificazioni e di questo episodio, pertanto qui riporto quanto scritto da Montluc nei suoi Commentari e riguardante Caselle in tutti i suoi dettagli. Le edizioni francesi reperibili di questo libro (dal 1600 al 1800) sono diverse e spesso le frasi cambiano, in questo caso viene riportato integralmente quanto stampato nel libro “Comentari del Signor Biagio di Monluc, Marescial di Francia”, tradotti dal francese e dedicati al Serenissimo Principe Lorenzo di Toscana dal sig. Vincenzio del s. Buonaccorso Pitti, nobile fiorentino – nell’edizione della Stamperia de Sermarrelli del 1630.
Trascrizione da pagina 152
(…) Il sig. Maresciallo ritirò tutto l’esercito intorno a Ceva, e la mattina seguente ricondusse l’artiglieria che il sig. di Bassè e il sig. di Gordes avevano condotto, quando essi la presero, e lasciarvi tre compagnie, due francesi e una italiana. Poi si ritirò per Mondovì inverso Torino e Chieri. Non mi sovviene in che modo Ceva poi si perdesse, perché noi vi ritornammo un anno dopo, a recuperarla, e fu bene altra mente oppugnata e difesa, che la prima volta come a suo tempo io dirò.
Qualche tempo di poi il Sig D. Ferrando ordinò un esercito, che avanzava di molto tutte le forze del Signor Maresciallo, non avendo questi pure un tedesco, o svizzero. Egli ne fu avvertito dal Signor Lodovico Birago, e dal Bernardini, che quell’esercito era ordinato per venire a ripigliar S. Martino, e gli altri castelli lor tolti, e insieme per prender Caselle, terra vicina quattro miglia a Torino, e fortificarla, acciò Torino non ricevesse rinfrescamento alcuno dalle montagne, e vallate di Lanzo, massimamente da Caselle, donde si cavava la maggior parte delle legna, e delle frutte per Torino.
Consiglio del sig. Brissac sopra lo scendere dell’esercito Spagnolo
Ed essendo il campo di D. Ferrando in ordine, per marciare alla volta di S. Martino, il Sig. Maresciallo tenne consiglio di quello, che dovesse far di Caselle, poiché non era tal luogo fortificato da potersi difendere. E conclusero che bisognava lasciarlo, e smantellarlo; quantunque l’abbattergli le mura servisse a poco, perché D. Ferrando gliele avrebbe tosto rifatte. Io fui avvisato a Moncalieri, la sera stessa di tale conclusione, e però la mattina me n’andai a trovare il Sig. Maresciallo in Torino, e gli domandai se egli aveva fermo d’abbandonar Caselle. Mi rispose che sì, perché non si sarebbe trovato alcuno che volesse arrischiar la vita e l’onore, a porvisi dentro; e che avevano risoluto in consiglio di mettervi dentro una compagnia d’italiani, con pensiero che s’arrendesse, quando vedesse D. Ferrando avvicinarlesi.
Montluc piglia a difender Caselle
Gli dissi che ciò a nulla gioverebbe perché il Capitano stesso lo particerebbe a suoi soldati; acciocché non temessero d’andarvi, e che bisognava far da vero, non in tal modo. Mi rispose: “E chi vorreste voi, che fosse si temerario e privo di senno che pigliasse a difenderla…” Gli risposi che sarei quell’io. All’ora egli disse che avrebbe più tosto voluto perdere la metà del suo, che permettere ch’io mi obbligassi la dentro, poiché quella piazza non poteva esser fortificata in un anno per reggere alle cannonate.
Signore il Re non ci paga, e non ci dà gli onori se non per tre cagioni.
L’una per vincerli qualche battaglia, acciocché mediante quella egli possa conquistare del paese assai.
L’altra per difendergli alcuna città, o terra, poiché non si perde luogo, che non tiri seto una gran perdita di paese.
La terza per pigliare qualche terra, o città avvenga che la presa d’una città conduce a soggezione molta gente. Tutto il restante non è altro che scaramucce, o riscontri, che non fervono se non in particolare a noi, per farci conoscere e stimare dai nostri superiori e acquistarci onore. Perciocché quanto al Re, egli non guadagna niente di ciò, ne di qualunque altro tratto di guerra ma solo dalle tre cose suddette: e però prima che questa piazza si lasci, io vi morrò dentro. Il Sig Maresciallo mi contrasto forte per divertirmi da intenzion così fatta, ma quando mi vide ben risoluto, mi lascio fare. Egli si pagava assai di ragione, ne era di sua testa, come il Signor di Lautrec, nel quale fu notato questo difetto secondo ch’io penso aver detto altrove.
Descrizione di Caselle
Caselle è una terra piccola cinta di muraglia di ciottoli, senza pietra alcuna quadrata, la circonda un fosso, nel quale mettendosi l’acqua, ne esce di maniera, che non si può il fosso affondare, ne ritenere l’acqua in luogo niuno più, che a mezza coscia. Non vi era trincea niuna, né dentro, né fuora. Le quattro cantonate non eran punto ripiene, a talché quando mi fosse stata battuta una cortina per canto, io poteva esser battuto insieme per fianco. Chiesi al Sig. Maresciallo 500 guastatori della montagna; ed egli spedì prontamente, perché fossero levati, e fummo in quattro giorni a Caselle.
Di più gli chiesi una gran quantità di strumenti e di ferri per far lavorare i soldati; il che similmente egli subito mi mandò e insieme copia grande di farina, prosciutto, piombo, polvere, e corda. Poi gli chiesi il Baron di Cipi, il Garda, parente del Baron della Garda, il Massa, Martino, e la mia compagnia. Tutte queste cinque erano buonissime compagnie, e comandate da valorosi Capitani, i quali avendo inteso che io gli avea nominati spontaneamente, lo presero per lode e onore particolare. Gli domandai ancora il Gritti Veneziano, che aveva una compagnia d’italiani, e mi furono tutti concessi. La mattina dunque andai a pormivi dentro, e la sera tutte le compagnie v’arrivarono. Mons. di Giè, figliuol maggiore di Mons. Malgirone, si trovava quivi in presidio, con la compagnia d’uomini d’arme del detto suo padre, a cui il Sig. Maresciallo mando a dire, ch’egli uscisse, e conducesse la compagnia a Moncalieri. Esso gli rescrisse che non era stato lungamente in presidio a Caselle, per abbandonarla appunto quando vi veniva l’assedio e massimamente poiché un si vecchio Capitano com’io era, pigliava a difenderla, e che però aveva deliberato di morivi con esso meco. Il Sig. Maresciallo a questa replica non s’acquietò altrimenti, perché la mattina seguente venne di buon’ora a Caselle, avendo seco il Sig. d’Ofiu, il Motta Gondri, e il Visconte di Gordeone. Io aveva di già distribuito tutti i quartieri alla fanteria, senza diloggiare le genti d’arme, poiché io vedeva il Sig. di Giè ostinato, e tutta la sua compagnia risoluta di restar quitvi. Arrivato il Sig. Maresciallo non seppe far si, ch’ei ne potessi menar seco il detto Sig. di Giè, anzi rispose egli francamente che ben poteva cavarne la sua compagnia, se ciò gl’era grato, ma che quanto alla persona sua, esso non era già per uscirne. Laonde il Sig. Maresciallo se ne tornò molto malcontento d’avermi concesso mai ch’io mi vi ponessi. Voglio dir veramente che a’ detti Sig. Motta, Gondrino e Gordrone si commosser le lacrime quando mi dissero addio; e mi tenevano, come anche faceva il Prefidente Birago stesso, che oggi vive in manifesto pericolo, o della vita, o dell’onore. Desinato che ebbero se ne andarono. Pregai il Sig. Maresciallo, e tutti i miei compagni, che non mi venissero più a vedere, perch’io non voleva essere impedito d’un quarto d’ora d’attendere alla mia fortificazione. Lo pregai similmente a mandarmi il Colonnello Giaramondo ch’era a Ribugls, insieme con due suoi ingegneri, acciocché m’aiutassero alla detta fortificazione. L’uno de’ quali ingegneri morì nella presa di Volpiano, e l’altro era il Cavaliere Relogio, ch’è oggi in Francia.
Diligenza del sig. di Montluc in fortificar Caselle
Noi cominciammo a riempiere le quattro cantonate, avendone quattro Capitani presa ciascun la sua. Di poi scompartimmo alle quattro cortine le due altre compagnie, e i 500 guastatori insieme con altri quattro Capitani, e s’adoperavano al lavoro tutti i terrazzani sopra dieci anni, portando terra. E per non far torto all’onore di alcuno è da sapere che il Sig di Giè aveva un Alfiere del Delfinato, che si chiamava Monforte, e il suo Guidone era Mons. dell’Estanc, i quali partitisi di commissione del Sig. Maresciallo per andare a Moncalieri, arrivativi la sera, cominciarono a stare in pensiero ,ed a intenerirsi per amor del lor Capitano restato a Caselle. Di maniera che tutta la compagnia s’ammutinò, e risolvè di tornare a morir dove lui e non l’abbandonare. Onde Mons. dell’Estanc sudetto pregò l’Alfiere Monforte a voler restare egli quivi, dicendoli che poteva talvolta succedere che il Sig Maresciallo, come egli avesse veduto essersene partita una parte, lasciasse tornarvi anche l’altra, e però, che per non disgustarlo, ritenesse seco tutti quelli che volessero rimanere. Così dunque essendo convenuti, Mons. Estanc temendo che il Signor Maresciallo non ne fosse avvertito, si partì a mezza notte, seguito da tutta la compagnia, perché niuno vi volle rimanere, eccetto due huomini d’arme e tre arcieri con detto Monforte. Lasciarono i loro cavalli grossi e l’arme, salvo corazza e celata, e montarono sopra un cortaldo ciascuno, lasciando le lance a loro alloggiamenti, presero delle picche con un servidore per uno a piedi. Et arrivarono a levata di sole a Caselle distante da Moncalieri sei miglia. Il Sig. di Giè, e il baron di Cipi, avevano cominciato a terrapianar la porta, e videro venir questa gente. Stettero un pezzo a riconoscergli, poi tutti e due corsero loro incontro.
Conobbi da questo quanto Mons. di Giè fosse amato dalla sua compagnia, e certo lo meritava, perché ardirei di dire, che egli era uno de più bravi e de più valorosi Capitani di Francia. L’Alfier Monforte se ne andò la mattina a trovar il Sig. Maresciallo e gli disse che aveva perduto il Guidone, e tutta la compagnia, perché se n’erano tornati la notte al lor Capitano pregandolo, che gli dessi licenza di seguitarli co’ due huomini d’arme, e i tre arcieri, che solamente gli erano rimasti. Il che non gli volle egli concedere, anzi espressamente glielo proibì, rimandandolo a Moncalieri.
Bell’ordine tenuto in Caselle
L’ordine, che noi in Caselle tenevamo, era questo, che la mattina tutti generalmente tanto i capitani, i soldati, i guastatori, quanto gli uomini e donne della terra, erano innanzi dì ciascuno al suo lavoro, pena la vita, e per farveli stare in timore diedi ordine che si rizzassero un paio di forche. Io aveva, ed ho sempre avuto un poco di cattivo nome di far giocar di corda, finché non vi era persona, piccola o grande, che non temesse la mia natura e il mio umor di Guascogna. E perché egli era di inverno, e ne giorni più corti sì travagliava dal principio del di’ fino alle diciassette ore, poi tutti ce ne andavamo a desinare, e a mezzo si tornava ogn’uno all’opera sua, e si lavorava fino all’entrar della notte. Quanto al desinare, ciascuno desinava al suo alloggiamento, ma la cena si faceva al mio, o a quello di Mons. di Giè, o da uno degli altri Capitani una volta per uno, e vi si ritrovavano anche gli ingegneri e i capimastri del lavoro. Se tra essi v’era alcuno, che non avesse tirato innanzi il suo lavoro al par degli altri, io gli davo dei soldati e dei guastatori di più, acciocché la sera seguente la sua opera fossi condotta quanto quella del suo vicino. Io non restavo mai di correre per tutto a cavallo, ora alle fortificazioni, ora dove si segava le tavole per via di mulino, perché di quelle ne feci fare quantità grande di grossezza di mezzo piede, così altri legnami, che ci erano necessari. L’acqua di questo mulino ci faceva buon giuoco, perché la sega non riposava giammai.