L’idea che il multitasking esasperato rappresenti una frontiera evolutiva del genere umano porta con sé dubbi, che meritano di essere approfonditi. Durante la serata dedicata a “Giovani e Genitori interconnessi”, svoltasi in Sala Cervi nella piovosa serata di venerdì 19 maggio, durante la sessione dedicata al dibattito e alle domande dal pubblico, è stato toccato proprio questo argomento. Un giovane padre, dal pubblico, ha chiesto alla dottoressa Multari, psicologa e psicoterapeuta, se ritenesse “normale” che il proprio figlio tredicenne faccia costantemente più cose in contemporanea. Gioca con la Nintendo Switch, mentre è in chiamata su Whatsapp, con la televisione accesa su Youtube. Quanto rappresentato è ormai uno scenario tipico nelle famiglie e, se non regolato con argini invalicabili costruiti dai genitori, la maggioranza dei minori tra i 10 e i 18 anni, statisticamente si comporterà nello stesso modo.
Ribatte qualcuno dal pubblico, sostenendo che la capacità di fare più cose contemporaneamente è uno stadio evolutivo e che il cervello umano si sta biologicamente evolvendo, in modo da renderci più flessibili e versatili. Si parlava di multitasking, appunto.
Personalmente ritengo che il multitasking, se supera un certo grado di “polverizzazione” dell’attenzione, non rappresenta un segnale di intelligenza, ma al contrario comporta un alto rischio di superficialità e di incapacità di approfondire e sviscerare le informazioni e i compiti da svolgere. Pensando al mondo lavorativo, sono convinto che il multitasking potrebbe aiutarci a mantenere le nostre occupazioni, ma certamente non contribuirà alla nostra crescita professionale, perché saremo sempre più costretti a perseguire l’esecuzione, più che la generazione di valore. Come abbiamo visto, ci illude di essere pienamente impegnati, ma in realtà perdiamo la capacità di approfondire, concentrarci e progredire in modo significativo.
Anche perché il multitasking moderno non è rappresentato dallo svolgimento in parallelo di più attività per le quali prestiamo la massima attenzione per ciascuna, anche se frazionata proporzionalmente. Il concetto attuale di multitasking prevede lo svolgimento di una o più attività, interrotte continuamente da notifiche, messaggi, interazioni digitali che continuamente “infilano il bastone della distrazione tra i raggi della ruota della concentrazione”.
Riuscire a svolgere più compiti in parallelo (studiare e cucinare insieme, ad esempio), non sarebbe impossibile per una persona mediamente dotata di facoltà intellettive e capacità di concentrazione. Ma se in mezzo a quelle due attività, infiliamo i messaggi da Whatsapp, la “sbirciatina” al profilo Facebook, le notifiche di qualche tag su Instagram o la notifica della pubblicazione di un nuovo video dal nostro TikToker preferito, ecco che il rischio di ritrovarsi totalmente scollegati dal contesto e dalle attività da svolgere, diventa più che concreto.
Uno studio che ha già qualche anno conferma proprio questa prospettiva: l’idea fallace, ma ampiamente diffusa è che le innumerevoli interconnessioni e gli scambi continui tramite chat e social media ci rendano persone più ricche, complete, informate e attente agli altri.
In realtà, è tutto falso: il rischio è di diventare più superficiali e di non essere in grado di svolgere, al meglio, le attività da gestire concretamente. Secondo lo studio del 2016 di Kathryn Lafreniere e Logan Annisette, rispettivamente la prima professoressa di psicologia e la seconda sua allieva presso l’Università di Windsor, in Canada, l’invio compulsivo di messaggi e le continue interazioni sui social network ci portano su un percorso piuttosto complesso e pericoloso. Questo fenomeno è definito “moral shallowness”, una sorta di diffusa superficialità sociale.
È ovvio che tutti gli studi, inclusi quelli più autorevoli, partono da una tesi e tendono ad enfatizzare gli elementi che la supportano. Tuttavia, così come il multitasking lavorativo si è rivelato in prospettiva poco vantaggioso, sembra che anche il multitasking sociale, per così dire, ci impedisca di riflettere su questioni più ampie che vanno oltre l’apparenza, lo stile di vita, i gadget, il nostro contesto e l’immagine che cerchiamo di proiettare agli altri. È necessario approfondire, come sottolineano anche le autrici della ricerca nel loro articolo scientifico. La vera domanda è se i comportamenti digitali influenzino i nostri obiettivi di vita o se, al contrario, avremmo comunque sviluppato quegli obiettivi limitati in altri modi e con altri mezzi. In sostanza, la conclusione più ragionevole e sorprendentemente semplice, che personalmente sottoscrivo, è quella di una delle autrici: “Non penso che i social media siano di per sé dannosi, problematici o diabolici”, ha affermato Logan Annisette. “Tuttavia, sollevo un problema e sostengo che non siano il modo migliore per impiegare il nostro tempo”.
Creare valore o perdere l’attenzione?
La vita multitasking
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