Passeggiando fra le bancarelle del nostro mercato, mi trovo in coda in un banco, in attesa del mio turno. Prima di me un signore distinto e di bell’aspetto ad onta degli anni.
Sorpresa: quando tocca a lui essere servito, si rivolge all’addetto al banco in lingua araba.
Il dialogo fra i due scorre veloce, come si conoscessero da sempre: ridono, scherzano al punto da suscitare in me una domanda che mi sgorga dal cuore, nonostante fino a quel momento il signore fosse per me un perfetto sconosciuto: – Scusi, ma come fa a parlare così bene l’arabo?-
La risposta poteva essere anche della serie “Ma fatti i fatti tuoi”, invece la cordialità e la cortesia del mio interlocutore è stata disarmante.
“Un caffè?” Certo, e seduti all’ombra di un bar cittadino, si è aperto un mondo.
– Mi chiamo Antonio, ho abitato a Caselle e vengo regolarmente al vostro mercato. Leggo Cose Nostre; mi piace il vostro giornale, anche se da un po’ di tempo sono emigrato a Venaria. Sappia che quello che sto per raccontarle lo sanno pochissime persone.-
Le mie orecchie erano un tutt’uno insieme alla curiosità che sprizzava dai pori della mia pelle e l’ascolto diventava sempre più pregno di interesse
.
Ecco “la piccola storia”, di Antonio, come la definisce lui. Quando alla fine della tutt’altro che piccola storia ci siamo lasciati, Antonio mi detto solo il suo nome di battesimo, niente altro: dietro di lui il totale anonimato, anche se ci ha autorizzato a ritrarlo e a pubblicare la foto.
“Dunque Antonio, la pensavamo un laureato in lingue orientali, un diplomatico, un uomo d’affari o un giornalista reporter inviato in terre lontane…
Ma, mi dice, niente di tutto ciò.”
– Sono nato ad Azizia, una città vicino a Tripoli, da mamma Francesca Gentile e papà Romolo, il 5 luglio 1949.
Sono nato in Libia, perché mio papà era un pilota dell’ Aeronautica Militare, inviato dall’Arma e dallo Stato in missione in Libia.
Vivevo nell’aeroporto di Castelbenito, vicino a Tripoli. Nel 1950 mio papà si ammalò di tubercolosi, venne rimpatriato in Italia e inviato al Policlinico Gemelli di Roma, ma io non lo vidi mai più: di lui mia mamma ricevette la notizia della morte con un telegramma. Con la mamma andammo a vivere a Suani Ben Adem, una cittadina delle dimensioni di Caselle, intanto lo stato libico aveva affidato a mia mamma la guardiania di una scuola locale.
Mia mamma non si risposò mai, io continuavo a vivere con lei e nel frattempo avevo trovato lavoro in una impresa italiana, la Lavini & Scianna, specializzata in manutenzioni ai campi e pozzi petroliferi nel deserto.
Il bel clima di Tripoli, la bella convivenza con il mondo locale, l’inserimento e la scolarizzazione in loco erano per me cose del tutto naturali: il mio mondo era quello, la mia patria era la Libia.
Mai mi sarei aspettato che dopo il colpo di stato del 1° settembre 1969, avvenuto a Tripoli da parte del Colonnello Gheddafi, sarebbe successo tutto quello che racconterò.-
– Appena preso il potere, Gheddafi, rese pubbliche e di proprietà dello Stato le banche e le compagnie petrolifere locali, buona parte delle quali erano italiane. Parallelamente provvide a espellere tutti i cittadini americani, inglesi ed ebrei, mentre per noi italiani c’era il grande rispetto per il lavoro fatto e quindi una sorta di riconoscenza. Poi, per fatti a me sconosciuti e che solo dopo ho appreso dai libri di storia, (diatribe fra stato italiano e libico su aiuti militari e su posizioni pro e contro Istraele, ndr) lo stato libico promulgò una legge che vietava agli italiani in loco di vendere i loro beni; quindi divieto di vendere casa, auto, beni vari ecc ecc.. Unica sanzione prevista per chi trasgrediva…la pena di morte. Una condanna pesantissima. Di fatto noi italiani non eravamo più padroni di nulla, non potevamo vendere a nessuno i nostri beni. Intanto proseguivano le trattative per lo sblocco della situazione fra Italia e Libia, ma Gheddafi, sentitosi preso in giro, decise nell’arco di pochi giorni di espellere tutti gli italiani: eravamo più di 26.000 persone. L’ordine era di partire immediatamente e imbarcarsi sulle navi ancorate al porto di Tripoli. A carico nostro anche il viaggio, l’Ambasciata Italiana ci aveva promesso il rimborso. Potevano restare i cittadini nati in Libia, ma non quelli che erano stati inviati o al seguito di missioni. Nel mio caso, io avrei potuto restare essendo nato in Libia, ma avrei dovuto abbandonare la mamma vedova al suo destino.
Ci imbarcammo entrambi su una squallida petroliera con centinaia di altri connazionali: era il 26 luglio 1970. 53 anni fa. Quando io ero su quella nave pigiato e maltrattato, con mia mamma che piangeva e io che la consolavo, qui in Italia c’erano giovani come me di 20 anni che cantavano e ballavano sulle spiagge le canzoni degli Anni ‘70. Per noi non era affatto così, non c’era spazio per canzoni e vento d’estate.-
Antonio estrae dal suo portafoglio una foto in bianco e nero, di quando era su quella nave e gli occhi gli si fanno lucidi.
– Quei ragazzi erano miei coetanei, con la differenza che io non avevo più nulla: senza patria, senza un padre che per quella patria era morto.
La traversata da Tripoli a destinazione a noi ignota fu un viaggio da incubo, sbarcammo a Napoli e fummo portati al campo profughi “Calzanella”, a Fuorigrotta. Da luglio rimanemmo segregati nel campo profughi fino a novembre. Finalmente poi la situazione si sbloccò, almeno in parte: mamma era stata inviata a prendere servizio in una scuola a Torino e io venni assunto dalle Poste e Telegrafi sempre in città. Quel lavoro però non mi era congeniale, tentai quindi, avvalendomi anche della qualifica di profugo, di propormi per un impiego presso la SIP, poi diventata Telecom, dove venni assunto. Studiai e presi il diploma da geometra, riuscendo così a realizzarmi negli uffici edili di quella azienda, dove rimasi con grande soddisfazione fino al 1999.-
“Antonio, perché ha deciso di raccontare proprio a noi di Cose Nostre la sua vicenda?”
– Perché vorrei che questa mia storia venisse letta dai giovani, dagli alunni delle scuole. Loro sono i veri destinatari di queste esperienze, non tanto per il racconto in sé, bensì a monito e a salvaguardia sempre e in ogni modo della libertà, della nostra Costituzione e per invocare la pace, da cui discende benessere e sviluppo economico e buona convivenza civile. A quanti è successo quello che è capitato a me, di perdere casa, patria e radici? A quanti succederà ancora? Solo se ricorderemo per sempre i punti cardini, le leggi fondamentali potremo pensare di vivere nel sano benessere che poi io ho gustato qui in Italia”.
Lo dica a Cose Nostre, intanto io continuerò a leggervi e apprezzare i vostri articoli”.