Internet, i social media e i vari servizi online sono diventati strumenti cruciali per la disseminazione di informazioni, la mobilitazione di supporto e la conduzione di indagini in tempo reale, soprattutto in situazioni di conflitto. La recente tensione tra Israele e Gaza ha evidenziato come queste piattaforme possano sia illuminare che complicare la percezione globale degli eventi bellici. Basta aprire X (l’ex Twitter) per rendersi conto della quantità di materiale audio, video e testuale proviene dai teatri di guerra.
L’Open Source Intelligence (OSINT), per esempio, è diventata una pratica comune, con individui e gruppi che utilizzano fonti pubbliche per condurre analisi e raccogliere dati su crisi internazionali. L’OSINT ha permesso a professionisti e amatori di esaminare video, immagini satellitari e documenti di pubblico dominio per fornire contesto e chiarimenti su eventi complessi. Una figura di spicco in questo campo è Eliot Higgins, che attraverso il suo sito Bellingcat, ha portato alla luce informazioni cruciali su vari conflitti internazionali, stabilendo un nuovo standard per l’analisi open source.
Ma se da una parte “l’online” ci fornisce strumenti inediti per fare chiarezza, dall’altra dobbiamo renderci conto che gli stessi strumenti possono essere impiegati per manipolare la percezione della realtà. È il caso delle recenti polemiche che hanno riguardato Instagram e Facebook. Molti utenti hanno denunciato il cosiddetto “shadow ban” di contenuti relativi al fronte palestinese, sostenendo che i loro post fossero nascosti, ritardati o penalizzati nelle visualizzazioni. Sebbene Meta, la società madre di Instagram, abbia ufficialmente attribuito il problema a un bug, la percezione di una possibile censura ai danni della fazione palestinese ha sollevato preoccupazioni sulla neutralità delle piattaforme di social media in tempi di crisi.
Va specificato, in ogni caso, che le possibili cause dello “shadow banning” possono essere molteplici e complesse. Le piattaforme di social media utilizzano algoritmi complessi per filtrare e organizzare i contenuti. Le sfumature linguistiche e culturali possono facilmente sfuggire a sistemi automatizzati, portando a una categorizzazione errata dei post e, di conseguenza, a una loro possibile occultazione.
Per di più, le aziende statunitensi, inclusi giganti dei social media come Meta, sono soggette a specifici obblighi di legge che possono influenzare la gestione dei contenuti online. Ad esempio, le leggi relative alla sicurezza nazionale o alla prevenzione del terrorismo possono richiedere una moderazione più stretta dei contenuti, specialmente in contesti geopolitici delicati. Questo può portare a una maggiore cautela da parte delle piattaforme nel gestire contenuti legati a zone di conflitto, con la conseguenza di una possibile limitazione della visibilità di tali contenuti. Infine, va ricordato che gran parte delle aziende tech collegate ai social media sono statunitensi e, per tale motivo, non possono essere considerate neutrali a prescindere, visti gli scenari geopolitici in cui gli USA si muovono.
A conferma di ciò, Facebook e Instagram non sono le uniche piattaforme ad essere coinvolte più o meno direttamente nei conflitti bellici. Recentemente, infatti, Google ha disabilitato le condizioni del traffico in tempo reale in Israele e nella Striscia di Gaza sulle sue app Maps e Waze, rispondendo a una richiesta dell’esercito israeliano in vista di una possibile invasione di terra a Gaza. Questa mossa ha sottolineato come le tecnologie possano essere modulate in risposta a richieste militari o governative, mettendo in luce l’interazione tra tecnologia e geopolitica.
Il ruolo di internet e dei social media nei teatri di guerra moderni è cresciuto esponenzialmente, con statistiche che mostrano come la disseminazione di informazioni online possa influenzare significativamente l’opinione pubblica e, in alcuni casi, l’esito dei conflitti. Secondo un rapporto del Digital Forensic Research Lab, ad esempio, le campagne di disinformazione condotte sui social media sono diventate uno strumento comune per le entità statali e non statali per promuovere i loro obiettivi geopolitici. Queste campagne possono raggiungere milioni di persone in poco tempo, amplificando narrativa e propaganda a livelli precedentemente inimmaginabili.
La prevalenza dell’uso dei social media come fonte di notizie in Italia evidenzia un cambiamento generazionale nel consumo di informazioni. Il 64% degli adulti in Italia attinge notizie dai social media, e la metà di questi accede alle notizie sui social media quotidianamente. In particolare, i giovani adulti tra i 18 e i 29 anni sono più propensi a informarsi tramite i social media quotidianamente rispetto a quelli con più di 50 anni, con una percentuale del 74% contro il 41%. Questo dato riflette una tendenza crescente verso l’accesso alle informazioni in modo digitale e in tempo reale, soprattutto tra le generazioni più giovani. Allo stesso tempo, sottolinea l’importanza crescente dei social media come canali primari per l’informazione e la formazione dell’opinione pubblica, non solo in Italia ma anche globalmente.
Tuttavia, da grandi poteri derivano grandi responsabilità. Le piattaforme online sono spesso criticate per la loro incapacità di contrastare la disinformazione e la propaganda. La mancanza di trasparenza negli algoritmi che governano la distribuzione dei contenuti e la moderazione, come abbiamo visto, può portare a accuse di censura o di favoritismo verso determinati gruppi o ideologie.
Di fronte a questa complessità, l’unico strumento in mano alle persone è coltivare un sano scetticismo e la consapevolezza che online, ciò che si vede, si ascolta e si legge, può essere condizionato, se non addirittura manipolato. Dovrebbe essere introdotta una nuova materia scolastica nelle scuola, fin dai gradi inferiori, in modo da poter crescere le nuove generazioni di cittadini un po’ meno vulnerabili di fronte a queste moderne insidie.