L’ insostenibile leggerezza di un NO

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Dall’immediato dopoguerra a oggi la situazione femminile, magistralmente messa su pellicola dalla straordinaria Paola Cortellesi, è cambiata molto sotto certi aspetti, ma praticamente nulla per altri: un certo pensiero fatica a morire. Ancora oggi le donne ai maschi fanno paura: perché studiano, lavorano, sono autonome, e per un maschio questo è insopportabile quanto la kryptonite per Superman.
Maschi, non uomini. Importante ci sia una netta distinzione. Il maschio non ha empatia, rispetto, tormento, sensibilità. Per questo uccide. O la controlla, o la uccide.
Per lui la donna non è più tale, ma diventa una pertinenza, un oggetto che deve sottostare senza discutere.
Il maschio è dominante, o almeno lui crede di esserlo solo perché serra in pugno un coltello o picchia.
Per il tragico epilogo non occorre che l’ “oggetto” parli, disobbedisca: basta il trucco, un vestito più corto, il ritardo di un minuto.
In queste tragiche vicende c’è un senso del possesso totale, una dittatura da non contraddire mai, dettata da un’assenza di sentimenti.
Difficile se non impossibile per una donna difendersi: le denunce lasciano il tempo che trovano, spesso sottovalutate, e a nulla, o perlomeno a poco, servono gli stanziamenti per eliminare questa piaga. In più, occorre dirlo, leggi e sentenze sono scritte e prese quasi esclusivamente da uomini: e tra uomini, spesso, una certa complicità viene fuori, inutile girarci tanto intorno.
Non parlo solo di episodi terminati tragicamente, ma di quella certa quotidianità che possiamo riscontrare in famiglia, al lavoro, nei rapporti con gli altri, sui mezzi pubblici come ai giardinetti: dalla palpata che sotto ai dieci secondi ( il molestatore controlla sempre il cronometro) non è reato, agli apprezzamenti volgari e insistenti per la strada fino ad arrivare là dove le cronache ci portano con drammatica cadenza.
Quando poi ’episodio scuote maggiormente l’opinione pubblica ecco nascere manifestazioni e dibattiti a favore delle donne e contro la violenza: fiaccolate, fiori, assemblee, dibattiti, poi tutto purtroppo ritorna come prima e offre materiale senza fine alla serie Amore Criminale, storie di femminicidi e violenze.
La tendenza preoccupante è l’abbassamento dell’età di vittime e carnefici, ed i secondi forse, dico forse, cresciuti senza un “no”, senza un dialogo, magari con genitori che li hanno impegnati per tutto l’arco della giornata in molteplici attività tranne dedicare del tempo al dialogo in famiglia, nella quale non si sono colti dei segnali: visi puliti di ragazzi giovanissimi, carini pure, sbattuti in prima pagina dopo il massacro, e parallelamente i filmati di loro coetanei o più piccoli ancora che alla domanda “lasceresti che la tua ragazza andasse da sola in discoteca?”, rispondono di no, perché la proprietà non può arrivare a libere decisioni: occorre il permesso del maschio, il benestare per una cosa che al limite potrebbe essere una sorta di concessione, ma mai un diritto.
Parliamo di ragazzi che hanno già inculcata quella mentalità, e che di fronte ad un no si troverebbero spiazzati. Nelle loro teste il no non esiste, c’è sempre un’alternativa, magari tragica, ma esiste.
Anni di lotte, di incontri per poi ritrovare sempre il solito maschio che non accetta l’idea dell’emancipazione, della completa autonomia della compagna, dell’amica e allora quale modo migliore se non la soppressione fisica, la distruzione.
L’ultimo caso ha distrutto due famiglie, togliendo loro qualsiasi possibilità di avere davanti un futuro, un progetto.
Pensatori, sociologi e psicologi su questi temi chiedono a gran voce una “educazione all’affettività” nelle scuole, fin da piccoli.
Giusto. Ma come? Fatta da insegnanti che devono già badare a venti o venticinque ragazzini  con mille disagi e difficoltà? Occorre certo una capillare informazione, ma fatta da fior di specialisti, psicologi, ripetuta nel corso del tempo, occorrono investimenti, non slogan e provvedimenti che diventano aria fritta ogni qualvolta una donna viene uccisa magari dopo una vita di minacce.
Certo le scarpette rosse, certo ricordare le vittime, va bene il minuto di silenzio o quello del rumore ma per Dio occorre veramente una sterzata, perché il “mai più”, “non una di più” sia veramente tale.

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Luciano Simonetti
Sono Luciano Simonetti, impiegato presso una azienda facente parte di un gruppo americano. Abito a Caselle Torinese e nacqui a Torino nel 1959. Adoro scrivere, pur non sapendolo fare, e ammiro con una punta di invidia coloro che hanno fatto della scrittura un mestiere. Lavoro a parte, nel tempo libero da impegni vari, amo inforcare la bici, camminare, almeno fin quando le articolazioni non mi fanno ricordare l’età. Ascolto molta musica, di tutti i generi, anche se la mia preferita è quella nata nel periodo ‘60, ’70, brodo primordiale di meraviglie immortali. Quando all’inizio del 2016 mi fu proposta la collaborazione con COSE NOSTRE, mi sono tremati i polsi: così ho iniziato a mettere per iscritto i miei piccoli pensieri. Scrivere è un esercizio che mi rilassa, una sorta di terapia per comunicare o semplicemente ricordare.

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